Siamo una chiesa di imbalsamatori?

Maria Maddalena, Giovanna e Maria di Giacomo: prime testimoni e prime annunciatrici della risurrezione. A rigore, sono proprio queste donne, insieme alle loro compagne il cui nome non ci è stato tramandato, le prime predicatrici cristiane.
Anche se la chiesa non ha accolto la loro predicazione: dapprima gli apostoli ritengono i loro discorsi un vaneggiare e non prestano loro fede; in seguito, la chiesa ormai gerarchizzata ricaccerà le donne nel silenzio, per secoli.
Gli oppositori del pastorato femminile dovrebbero riflettere sul fatto che è proprio alle donne che viene affidato il messaggio della risurrezione, l’annuncio della novità di Dio che irrompe nel mondo spezzando tutti gli schemi: Cristo è risorto.
Eppure, prima di diventare le (inascoltate) annunciatrici della novità di Dio, in questa loro pia visita al sepolcro di Cristo le donne ci appaiono come le rappresentanti del “vecchio”: del vecchio di una comunità rassegnata alla morte del Maestro, una comunità che non sa nemmeno immaginare il “nuovo” di Dio.
Le donne vengono al sepolcro con degli aromi: unguenti, spezie profumate. Gli aromi dovrebbero servire ad ungere il cadavere di Gesù: più precisamente, ad imbalsamarlo. Imbalsamare: cospargere di balsami che servono ad arrestare o almeno a rallentare la decomposizione del corpo, e a coprirne il cattivo odore.
Ecco, le donne ci appaiono come le rappresentanti di una chiesa di imbalsamatori: una chiesa che si è rassegnata alla morte di Gesù, una chiesa che in fondo si è rassegnata alla propria irrilevanza, e allora non sa far altro che imbalsamare, che stendere unguenti profumati su un corpo morto per dare l’illusione della vita.
1. Non siamo anche noi, cristiani europei del XXI secolo, delle chiese di imbalsamatori? Chiese che stendono strati di olio profumato su Cristo e su se stesse, chiese che cercano degli espedienti per mantenere in vita una tradizione morente, ma senza nessuna prospettiva di reale cambiamento e rinnovamento? Chiese che si cospargono di unguenti pur di non arrendersi di fronte alla propria morte annunciata, chiese i cui sforzi sono concentrati sul tentativo di non far spegnere un lucignolo fumigante?
Badate bene che in questo senso non è necessariamente un insulto dire che siamo, come le donne del Vangelo, delle chiese di imbalsamatori.
Anzi, come scriveva il teologo Helmut Gollwitzer nel suo commento a Luca, “E’ un tratto lodevole non abbandonare una causa, anche se appare come persa, e rimanere fedelmente al proprio posto con molta bravura, forse, ma anche con molta rassegnazione…”.
Rassegnazione: ecco che cosa spesso continua a tenere unita la chiesa: “La fedeltà a un’idea, anche se su di essa non si fondano più grandi speranze; e il ricordo di quel che la chiesa ha dato ai nostri padri, e forse alla nostra stessa esistenza. Tutto questo è bello e buono – conclude Gollwitzer – ma in fondo non è nulla: non possiede alcuna forza e non costituisce per il mondo né un pericolo né un aiuto… Questa comunità… è qualcosa di cui non ci si deve preoccupare più di tanto, perché deperisce e muore, lentamente e sicuramente” (H. Gollwitzer, La joie de Dieu, p. 307).
Siamo anche noi, cristiani europei del XXI secolo, delle chiese di imbalsamatori. Chiese che, piamente e in parte lodevolmente, esorcizzano la loro morte annunciata con l’unguento della fedeltà a una causa.
Chiese che vedono a poco a poco svuotarsi le panche per cause naturali, e spesso sono rassegnate al fatto che quei posti non saranno rimpiazzati da volti giovani.
Chiese i cui templi, come già accade in molti paesi europei, vengono venduti e trasformati in locali commerciali.
Due anni fa la chiesa cattolica a Ginevra ha lanciato con successo una campagna di raccolta fondi mostrando chiese trasformate in night-club, pizzerie, fitness o carrozzerie.
Siamo chiese rassegnate alla nostra irrilevanza: fedeli ma incapaci di cambiare, devote ma timorose del nuovo. Ora, è proprio in queste comunità , fedeli ma stanche e rassegnate, che deve irrompere l’annuncio della risurrezione: Cristo è il vivente, è il salvatore del mondo, è colui che può ridare un senso alla nostra vita, che può rimettere in circolazione il sangue di un corpo intorpidito, che può rinnovare la nostra testimonianza.
2. Alle donne venute al sepolcro per imbalsamare Gesù, i due angeli di Dio rivolgono un rimprovero: Perché cercate fra i morti colui che è vivo?
Ed ecco il secondo aspetto che vorrei sottolineare: non solo le donne rappresentano una chiesa di imbalsamatori; esse ci appaiono anche come le emissarie di una chiesa rassegnata a cercare il Cristo fra i morti, una chiesa che è una specie di pompa funebre in grande stile e su scala planetaria, una chiesa che si accontenta di aggirarsi fra le tombe, che e si lascia confinare ai margini dell’esistenza.
A causa della sua incapacità di rinnovarsi, la chiesa si è infatti lasciata progressivamente emarginare dalla vita umana per accamparsi ai margini, per trincerarsi in alcune pieghe dell’esistenza.
La chiesa, e il suo messaggio non hanno più grande rilevanza nelle decisioni centrali dell’esistenza degli umani: le è rimasta una certa rilevanza solo ai margini della vita; agli inizi (la nascita, e tutto ciò che è legato ad essa, come la sessualità, il matrimonio) e alla fine della vita. Emarginata dal centro della vita, la chiesa la fa da padrona proprio negli ospedali, al capezzale dei moribondi, nei cimiteri, con una specie di rivincita sui vivi.
Oppure, invece di cercare di portare il messaggio del Vangelo al centro dell’esistenza, si accontenta di martellare ossessivamente su alcuni temi di morale (e solo su alcuni), cercando letteralmente di dettare legge a uno stato che dovrebbe essere laico, come sta accadendo in questi anni su questioni come l’accanimento terapeutico (la vicenda di Eluana Englaro) o le coppie di fatto.
Si badi bene: non è affatto sbagliato in sé che la chiesa intervenga nella vita pubblica; sbagliati, nel caso, sono i toni autoritari da crociata e le priorità scelte: di solito fenomeni marginali e casi limite.
Due anni fa un vescovo coraggioso, Luigi Bettazzi, in una lettera a Repubblica si chiedeva se non sarebbe stato meglio investire le energie della crociata anti-Dico (la legge proposta sulle coppie di fatto) per qualcosa di più sostanziale, ovvero per lottare contro il culto del dio-denaro, Mammona (lettera a Repubblica dell’11 febbraio 2007)? Profetico, il fratello Bettazzi, nel senso che a distanza di meno di due anni la crisi finanziaria mondiale gli ha dato ragione.
Una chiesa che si accontenta di vivere ai margini dell’esistenza: già mezzo secolo fa Dietrich Bonhoeffer insorgeva contro questa “autocomprensione marginale” del ruolo della chiesa, e contro la visione di un Dio “tappabuchi”, di cui ci si ricorda solo in casi limite.
Bohoeffer scriveva dal carcere che “Dio non deve essere riconosciuto solamente ai limiti delle nostre possibilità, ma al centro della vita; Dio vuole essere riconosciuto nella vita, e non solamente nel morire” (Resistenza e resa, lettera del 29 maggio 1944, p. 382-3).
Cristo vuol esser cercato e trovato fra i vivi, e non fra i morti. Egli infatti è “il vivente” – questa espressione tipica di Luca per indicare il risorto (cfr. Atti 1,3) è simile a quella che troviamo nel vangelo di Giovanni, quando Gesù stesso si definisce “la vita”. “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11,25): Gesù è la vita stessa, e il suo messaggio, la sua parola stessa che è spirito e vita (Gv 6,63), vuol essere colto al centro della vita, e non ai margini.
Perciò dobbiamo smettere di cercare il vivente fra i morti, dobbiamo recuperare la capacità di annunciare la Parola di Cristo al cuore stesso dell’esistenza umana.
E’ un compito arduo: si tratta di abbandonare il nostro modo stanco e rassegnato di seguire Gesù per lasciarci travolgere dal rivoluzionario messaggio di speranza della risurrezione.
L’Evangelo non può più essere solo un unguento, una cura palliativa, ma deve ridiventare messaggio essenziale e rilevante per la vita quotidiana. Come può accadere questo?
3. Il Vangelo di oggi ci dà ancora un’indicazione in questo senso, attraverso un gioco di parole che può essere colto solo nel testo originale greco. Le due parole in gioco sono la tomba e il ricordo, due parole che hanno la stessa radice che ritroviamo nelle parole italiane “mnemonizzare” o “mnemonico”.
Il verbo ricordare in greco è mnemonèuo, mentre la tomba è lo mnemèion , letteralmente il “memoriale”, il monumento che serve a ricordare il defunto. Ebbene, le donne sono invitate dagli angeli a ricordare le parole di Gesù: “Ricordate come egli vi parlò quando era ancora in Galilea” (v. 6b).
E quando finalmente esse si ricordano delle sue parole, quando queste parole ridiventano vive per loro, ecco che subito abbandonano la tomba, lo mnemeion, il memoriale dei morti, per andare ad annunciare l’Evangelo della risurrezione.
Nel testo greco, fra la fine del versetto 8 e l’inizio del 9 non c’è uno stacco, come nella nostra traduzione: letteralmente il testo dice: “e ricordarono (emnesthesan) le sue parole e tornate dal sepolcro (mnemeion) annunziarono tutte queste cose agli undici e a tutti gli altri”.
Che significato ha questo gioco di parole? Potremmo dire che qui troviamo contrapposti due tipi di “memoria”.
C’è la memoria della tomba, dello mnemeion, una memoria tombale o se volete “imbalsamata”, una che consiste nel ricordare con nostalgia i bei tempi antichi, ma che non ci mette in movimento; e poi c’è la memoria viva, quella delle parole di vita di Gesù, una memoria che ci mette subito in marcia per fare di noi, come le donne, annunciatrici e annunciatori della risurrezione.
Ora, le nostre chiese sono appassionate di memoria storica, e questo in sé è un fatto lodevole: ma dovremmo chiederci di quale memoria siamo appassionati.
E’ la memoria tombale e imbalsamatrice che non cambia nulla nella nostra esistenza di oggi, oppure è quella memoria viva che ci mette in movimento, che ci richiama alla nostra vocazione nel presente?
Come le donne, anche noi, se vogliamo incontrare il Cristo vivente, siamo chiamati da un lato a ricordare le sue parole; non in modo letteralistico, ma come parole che sono “spirito e vita”, per riprendere il già citato versetto di Giovanni 6,63, ritrovando la presenza del vivente al centro della nostra vita.
E d’altro lato siamo chiamati ad abbandonare i nostri sepolcri, i nostri mnemeia, i monumenti funebri, tutto ciò che appesantisce la nostra fede impedendoci di concentrarci sul Cristo vivente.
I nostri “sepolcri” possono essere cose diverse: abitudini, schemi mentali, tradizioni nobili ma irrilevanti ai fini di una testimonianza efficace nel nostro tempo; una mentalità rassegnata e incapace di elaborare progetti di rinnovamento; una propensione alla memoria storica fine a stessa, senza trarne stimoli e insegnamenti per il presente e il futuro della nostra testimonianza; l’incapacità di cogliere ciò che è essenziale per concentraci sui dettagli, finendo per colare il moscerino e inghiottire il cammello (Matteo 23,24); la scarsa fantasia, l’appiattimento mentale e spirituale che, come accadde per gli undici del nostro testo, ci rende incapaci di cogliere la novità dell’Evangelo, annunciata dalle donne, e ci fa considerare un “vaneggiare” quello che è l’autentico annuncio della risurrezione.
Dobbiamo disfarci di questi e di altri “sepolcri” che appesantiscono la nostra testimonianza e ci impediscono di concentrarsi sull’essenziale: il Cristo vivo, testimoniato nella parola delle Scritture, parola di spirito e vita, e presente al centro della nostra esistenza come colui che ha vinto la morte, come colui che sempre e di nuovo accende la nostra speranza. Amen.