Sul matrimonio gay la lezione dei cattolici irlandesi
Articolo di Pierluigi Battista pubblicato sul Corriere della Sera del 24 maggio 2015, pag.24
Anche nella cattolica Irlanda il matrimonio gay non è più un tabù. Non lo è in una Nazione in cui il cattolicesimo ha avuto e ha un peso fondamentale. Nell’Irlanda del culto di san Patrizio, dove storicamente la fede cattolica ha avuto un peso politico e sociale rilevantissimo, nell’Irlanda in cui ancora oggi l’aborto è un reato e la stessa omosessualità lo è stata fino al 1993 (solo vent’anni fa) quasi il 60 per cento di chi ha votato nel referendum, tra cui tanti cattolici, non ha trovato scandaloso, un attentato al matrimonio, un attacco ai valori fondanti della nostra civiltà, il fatto di dare veste giuridica, tutele e addirittura rilevanza costituzionale alle unioni tra persone dello stesso sesso.
Tutto diventa più veloce nel mondo. Tranne in Italia, dove son decenni che il riconoscimento delle unioni omosessuali si è impantanato nella discussione infinita, nella ragnatela dei veti, nell’ostruzionismo dilatorio. Eppure, si può e si deve fare anche in Italia. Le posizioni nella Chiesa cattolica non sono univoche. In Irlanda la Chiesa non ha fatto la guerra nel referendum. In Italia non si chiede ai cattolici di rinunciare ai loro valori, ma di accettare il principio di maggioranza. Si può fare, ma solo se si libera la questione dei diritti delle coppie tra persone dello stesso sesso dalla cappa di pregiudizi che pesano come in una interminabile guerra di religione. Si può fare, se si affronta il problema con realismo e desiderio di mettere a segno un risultato che sembra impossibile da realizzare.
Il voto irlandese dimostra che si può fare, anche in un Paese con una forte tradizione cattolica che non deve essere umiliata, messa in un angolo, costretta addirittura a tacere. Si può fare se si esce dalla propaganda e si entra, veramente e non con gli annunci dell’ultimo momento, in una dimensione in cui si stabiliscono date, scadenze, criteri, concetti.
La prima cosa da fare è sottrarre la questione del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali alla maggioranza di governo e consegnarla alla maggioranza che si forma in Parlamento. Per una ragione di principio: perché sui diritti, come sulle riforme istituzionali, è auspicabile una convergenza più ampia. E per una constatazione di fatto: perché c’è una forza di governo, il Ncd, contrario a una legge sulle unioni civili, mentre due fondamentali forze d’opposizione, Forza Italia e il Movimento 5 Stelle, non lo sono. E anche per una ragione storica: la parlamentarizzazione del dibattito crea convergenze inedite, polarizzazioni che non mettono in discussione la stabilità del governo.
Ricordiamo che la legge sul divorzio ebbe due motori, Baslini che era un liberale e Fortuna che era un socialista e un radicale, che appartenevano a due schieramenti diversi. Poi Fanfani volle portare la Dc alla guerra di religione del referendum del ’74 e per lui fu il disastro. Ma fu una scelta politica, non un atto dovuto. Il governo poteva essere messo al riparo dal conflitto sul divorzio. Solo la smania di rivincita del leader democristiano creò le condizioni di un quasi ribaltone politico.
Oggi è diverso. Si può e si deve accettare il principio di maggioranza per una legge giusta ed equilibrata che garantisca pari diritti alle coppie omosessuali (non c’è bisogno nemmeno del termine «matrimonio»). Si può e si deve accettare che chi non è d’accordo proponga referendum abrogativi, manifesti tutti gli argomenti contrari a una legge. Purché si decida. Purché non si finisca per sentirci lontani dall’Europa e dalla cattolicissima Irlanda.