Tengo famiglia. Si, ma quale?
Articolo di Adriano Gizzi tratto da Confronti del novembre 2005
"Tradizionale, moderna, allargata, di fatto, omosessuale, monoparentale, transnazionale. In Italia la famiglia fondata sul matrimonio resta ancora un’istituzione incrollabile, ma negli ultimi anni si è assistito a grandi cambiamenti". Un articolo scritto appena ieri, ormai vecchio anni luce, visto che sulle unioni civili sembra essere sceso il velo del silenzio, forse è il caso di ricordare quello che appena nel 2005 i nostri politici dicevano.
La famiglia al primo posto. Qualsiasi cosa questo voglia dire, non vi è programma politico – di destra, ma ormai anche di sinistra – che non contenga questa «parola magica». Un concetto passepartout, che funziona sempre, proprio perché inattaccabile.
E inattaccabile perché generico, come del resto un po’ tutte le parole d’ordine: democrazia, libertà, pace, giustizia. Tutti d’accordo – e chi potrebbe non esserlo? – fintantoché non si scende nel dettaglio, rispondendo alla domanda «in che senso?».
E allora: famiglia in che senso? Dietro l’espressione «difesa della famiglia», per esempio, alcuni settori della destra tradizionalista e cattolica hanno sempre fatto passare le loro idee conformiste e reazionarie.
Basti pensare alla campagna referendaria del 1974 sul divorzio, quando i missini invitavano ad abrogare «una legge sbagliata voluta dai fautori del malcostume», mentre Fanfani pronosticava lo sfascio delle famiglie, con «i mariti che scapperanno con le cameriere giovani».
Oggi, che il divorzio è ormai accettato come una realtà difficilmente contestabile (ma in realtà non si può mai stare tranquilli, con l’aria che tira), molti esponenti del centrodestra (peraltro quasi tutti divorziati, conviventi more uxorio, risposati o miracolati dalla Sacra Rota) agitano la facile bandiera della «difesa della famiglia tradizionale» in chiave polemica nei confronti di tutto ciò che da essa osi discostarsi.
In realtà non esiste nessun «attacco alla famiglia», non c’è nessuno così folle da voler vietare alle persone di sposarsi, così come non esiste nessun politico così suicida da mettersi contro la stragrande maggioranza di italiani che danno vita a famiglie tradizionali.
Ma se non c’è nessun attacco, perché dunque gridare al pericolo, indicando la necessità di una difesa della famiglia? Evidentemente perché dietro la parola «difesa» si nasconde proprio la volontà di attaccare. L’unico attacco accertato, infatti, è proprio quello nei confronti dei diritti e degli interessi legittimi delle coppie di fatto. E, più in generale, di chiunque compia scelte eterodosse in materia sessuale e sentimentale.
La Cei e la graduatoria del peccato
Aprendo la sessione estiva del Consiglio episcopale permanente, il 19 settembre scorso, il presidente della Cei Camillo Ruini ha ricordato l’articolo 29 della Costituzione («La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio»), sottolineando come di conseguenza nessun tipo di convivenza possa essere parificata al matrimonio né confusa con esso.
Come qualcuno ha fatto notare, la necessità di tracciare un solco profondo che dividesse in modo netto il «bene» (le famiglie) dal «male» (tutto il resto) ha indotto il cardinale Ruini a tralasciare (temporaneamente?) la distinzione fra matrimonio religioso e matrimonio civile.
Ci sarà tempo per ribadire e sottolineare la distinzione tra le famiglie benedette da Dio e quelle benedette solo da un sindaco. In questo momento, evidentemente, queste ultime servono come alleate nella crociata moralizzatrice contro il male, ossia le «non famiglie».
Quindi non si va tanto per il sottile e si arruolano anche queste famiglie di serie B. E non finisce qui, perché poi anche tra i peccatori esiste una sorta di graduatoria. Infatti tra le convivenze more uxorio, sottolinea Ruini, ve ne sono alcune che almeno si pongono nella prospettiva di un matrimonio: per ora si convive, e magari si hanno anche rapporti sessuali – con buona pace di Ruini – però presto si convolerà a giuste nozze, sanando questa situazione peccaminosa (il cosiddetto «matrimonio riparatore», del resto, è stato per secoli la regola).
I Patti civili di solidarietà
Altri tipi di convivenza, invece, non godrebbero neanche di questa attenuante: si tratta delle coppie che non solo convivono senza sposarsi, ma non hanno neanche intenzione di farlo in futuro. O perché semplicemente non vogliono, oppure perché non possono, in quanto appartenenti allo stesso sesso. Queste ultime due categorie sono quelle potenzialmente interessate ai Pacs, i Patti civili di solidarietà.
In molti paesi europei già esistono, si tratta di patti con cui una coppia di conviventi (etero o omosessuali) regola alcune questioni quali il regime patrimoniale, la successione, la reversibilità della pensione, il diritto di visita in ospedale o il subentro nei contratti di affitto.
Oltre 160 parlamentari dell’Unione (primo firmatario il presidente onorario dell’Arcigay Franco Grillini) hanno presentato una proposta di legge che li introduce anche da noi.
«Una proposta – si legge nella premessa – che intende fornire la possibilità di optare per uno strumento regolativo pattizio più snello e leggero alle coppie che non intendano impostare la propria vita sulla base della regolamentazione civilistica tipizzata dalle norme sul matrimonio (…).
Si tratta in sostanza di prendere atto che il pluralismo della nostra società non consente più, se non al prezzo di gravi e inutili costi sociali, di imporre alle famiglie non tradizionali una drastica scelta fra due sole opzioni: il matrimonio tradizionale da una parte, l’assenza assoluta di qualsiasi riconoscimento giuridico e perfino di tutela in caso di eventi imprevisti dall’altra (…). Non deve più accadere, a parere dei proponenti, che a chi ha convissuto con una persona, magari per trent’anni, possa essere negato perfino il diritto di assistere il proprio partner morente in ospedale».
Una proposta di buon senso, dunque, che trova il consenso anche di politici cattolici e moderati, come il leader dell’Unione Romano Prodi. Che però, appena ha osato esprimere il suo parere sull’argomento, è stato subito accusato dall´Osservatore Romano di voler «lacerare la famiglia per guadagnare voti».
L’accusa che viene generalmente mossa ai Pacs è di aprire la strada ai matrimoni e alle adozioni per le coppie omosessuali. Ma si tratta di un vero e proprio processo alle intenzioni perché – indipendentemente dall’opinione che si può avere su queste questioni – i Pacs non implicano assolutamente queste due conseguenze.
Ma persino il ministro degli Esteri Gianfranco Fini – che difficilmente può essere sospettato di essere un fiancheggiatore dell’Arcigay – si è mostrato comprensivo di fronte alla necessità di non discriminare i cittadini che danno vita ad unioni di fatto (ferma restando – ha precisato – la non equiparabilità con la famiglia tradizionale).
Insomma, dare diritti a qualcuno – lo hanno compreso anche alcuni settori del centrodestra – non implica necessariamente toglierli a qualcun altro.
Aiutare le coppie di fatto non significa penalizzare la famiglia tradizionale. Come sottolineato dal presidente dei Ds Massimo D’Alema (vedi l’Unità del 27/9/2005), «privilegiare la famiglia non può significare introdurre una discriminazione tra le persone (…) bisogna dare un fondamento di certezza a rapporti che si sono consolidati nel tempo».
Famiglie per tutti i gusti
Tradizionale, moderna, estesa, ricostituita, pendolare, libera, plurinucleare, omosessuale… mettendo nel conto tutti i tipi di unione esistenti, approvati o meno da leggi e morali, quanti modelli di famiglia (con o senza virgolette) esistono oggi?
Va subito detto che, pur fra mille trasformazioni, l’istituto della famiglia tradizionale continua a ricoprire un ruolo fondamentale nel nostro paese. In realtà le famiglie sono sempre di più, ma sempre meno numerose. Secondo i dati dell’Istat, oggi vi sono più di 22 milioni di famiglie, composte in media di 2,6 componenti.
Negli ultimi dieci anni, il numero delle famiglie composte da una sola persona è passato da poco più del 20% a oltre il 25%, mentre le coppie con figli senza altri componenti sono circa il 40%, le coppie senza figli meno del 20% e i nuclei di un solo genitore con figli quasi l’8%.
Meno del 7% le famiglie con più di quattro componenti (ma c’è una notevole differenza tra aree geografiche: il 4% al nord, l’11% al sud).
In Italia il numero medio di figli per donna è passato dal 2,42 del 1970 all’1,2 del 1999, anche se dal 2000 si sono registrati segnali di ripresa della natalità. Stanno ormai scomparendo le famiglie con almeno tre generazioni, quelle (un tempo diffusissime) in cui nonni e nipoti vivono sotto lo stesso tetto: oggi sono meno del 3%.
Come è noto, si tende ad andare via da casa sempre più tardi. I figli fra i 18 e i 34 anni celibi e nubili che vivono con almeno un genitore sono circa 7 milioni e 600mila, cioè oltre il 60%.
Ma il dato che emerge da tutte le inchieste è che crescono le nuove tipologie familiari: libere unioni (ossia convivenze non sancite da un matrimonio) e famiglie «ricostituite», cioè formatesi dopo lo scioglimento di una precedente unione coniugale di almeno uno dei due partner. Oggi sono quasi 600mila le libere unioni e circa 700mila le coppie ricostituite.
Complessivamente, sono circa cinque milioni le famiglie che l’Istat definisce «nuove forme familiari»: single, genitori soli non vedovi, coppie di fatto celibi e nubili, coppie in cui almeno uno dei due partner proviene da una precedente esperienza coniugale.
Sono invece quasi due milioni e mezzo i cosiddetti «pendolari della famiglia», ossia appartenenti a famiglie la cui composizione varia nel corso dell’anno in virtù degli spostamenti di uno o più componenti che, per motivi di vario genere, risiedono con regolarità in un luogo diverso dalla propria abitazione.
Ma le statistiche solitamente ci raccontano «il quanto», più raramente «il come» o «il perché». Per esempio, quasi nessuno si interroga su quanto il conformismo e la paura di compiere scelte considerate socialmente inaccettabili (o comunque meno apprezzabili) incidano sulle decisioni sentimentali di una persona. In alcune realtà, come magari alcuni piccoli paesi, una coppia che convive senza essere sposata può avere qualche difficoltà, nel senso che può avvertire un certo disagio.
Così come una donna che decida di vivere da sola può avvertire una certa ostilità da parte di alcuni ambienti. Per non parlare dei problemi che possono presentarsi a una coppia omosessuale. Non tutti hanno la forza di resistere al «giudizio sociale» o alla riprovazione delle persone che li circondano.
Spesso non si sceglie di sposarsi per una convinzione reale, ma solo perché «si fa», perché la pressione del partner o dei parenti è molto forte ed è difficile resistere, oppure magari perché si è convinti che per una famiglia «regolarmente sposata» l’inserimento nella società sia più semplice.
Un esempio pratico ci viene dalla storia di Anna, una ragazza di Siracusa, che ci racconta: «Il matrimonio di convenienza non è solo quello che si fa per denaro. Ci si può sposare anche per avere dei diritti che altrimenti ci verrebbero negati. Il mio compagno è in attesa di un trapianto di rene e io vorrei donarglielo, ma per la legge solo i parenti consanguinei o il coniuge possono farlo, mentre in altri paesi la donazione tra viventi è molto più semplice (naturalmente esistono dei controlli per impedire che vi sia un commercio mascherato).
Quindi nel nostro caso l’unica soluzione sarà sposarsi, anche se siamo contrari, perché a nostro parere il matrimonio per fede ha senso solo per chi crede nel sacramento, ma noi, da non credenti, non avremmo avvertito il bisogno di legittimare la nostra unione rendendola pubblica».