Teologia femminista. Riflettendo con la pastora Tomassone sul superamento delle relazioni di dominio
Articolo di Giuseppina D’Urso pubblicato su Adista Segni Nuovi n° 17 del 11 maggio 2019, pp.6-7
Letizia Tomassone è pastora della Chiesa valdese in Firenze. Consacrata nel 1984, aveva conseguito l’anno prima la laurea in Teologia presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma. In seguito ottiene il Deoat (master) in teologia sistematica presso l’Institut Protestant de Théologie de Montpellier (Francia).
Dal 2006 al 2012 è vicepresidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia. Nel 2010 riceve l’incarico di docenza e di coordinamento dei corsi di “Studi femministi e di genere” sempre presso la citata Facoltà Valdese, occupandosi anche di studi di teologia queer.
Vorresti brevemente presentarti
Sono cresciuta nel Piemonte post Sessantotto, di cui ho conosciuto sia le code luminose che violente. In seguito ho fatto l’Università a Roma, partecipando al movimento del ’77, divenendo femminista e frequentando i collettivi del Governo Vecchio. Gli studi al liceo classico mi hanno permesso di accedere con un buon livello della lingua greca alla Facoltà valdese di Teologia di Roma. Dove ho assorbito la teologia dialettica (Barth, Bonhoeffer) e l’approccio storico-critico alle Scritture. Insieme ad altre studentesse leggevamo (in lingua) i primi testi di teologhe femministe come Mary Daly.
Davvero formativo è stato il coinvolgimento in gruppi e convegni di giovani europei, come l’MCS (movimento cristiano studenti): ricordo dei viaggi avventurosi a Berlino est e nell’Irlanda divisa dalla guerra civile. Al temine degli studi a Roma ho conseguito un master a Montpellier in Francia, in cui ho incontrato il pensiero di teologi divergenti come P. Tillich o A. Gounelle e dove ho avuto le prime esperienze di una società multiculturale, lontana da venire in Italia.
Essendo parte della seconda generazione di pastore (solo due donne ci avevano precedute), da subito sono stata coinvolta dal pensiero del movimento femminista e dalle teologie delle donne: organizzavamo incontri e seminari sulle parole della fede, che mettevamo in questione, come obbedienza, redenzione, sacrificio, servizio. Sono stati anni di crescita di tutta una generazione di donne impegnate nella Chiesa e nelle trasformazioni sociali.
Da dove nasce l’interesse per la teologia queer?
Ho frequentato Agape per più di un decennio prima di divenirne “direttora” negli anni ’90, per cinque anni. È stato un periodo assoluto nella mia vita per la qualità degli incontri umani e per l’esperienza che nutriva il pensiero, tutto dentro categorie in cui essere donna costituiva la differenza. In quel periodo frequentavo “Diotima” aderendo al pensiero della differenza.
Tale pensiero, e tutta la riflessione sull’affidamento e l’autorità femminile, mi dava le categorie per pensare il mio ruolo, le relazioni, il rapporto con Dio. Con le filosofe della differenza, che erano amiche, nacquero progetti e percorsi di vita. Solo dopo molto tempo mi sono in parte allontanata, specie da un modo essenzialista di vedere l’identità. Infatti nel frattempo avevo incontrato il mondo lgbt e il pensiero queer, che hanno rimescolato le categorie con cui pensavo il mondo e le relazioni fra i generi. Da un separatismo rigido sono passata a una fluida dimensione queer.
Quali differenze e quali similitudini noti nell’approccio alla teologia fra gli ambiti riformato e cattolico?
Una delle questioni centrali è quella di una teologia naturale, radicata nella creazione e quindi immutabile, vincente in ambito cattolico tradizionale, e una teologia storica praticata nel mondo protestante, che permette di concepire i cambiamenti rispetto a identità, generi, relazioni sessuali come un portato della storia. Di fatto si fatica in tutti e due gli ambiti ad agire trasformazioni autentiche e durature. Tuttavia l’approccio protestante ha permesso di avere le donne e le persone lgbt tra i ministri di culto e ha aperto alla benedizione delle coppie omoaffettive.
Le teologhe cattoliche, con cui partecipo alla bella avventura del Coordinamento delle Teologhe Italiane (CTI), hanno sviluppato una grande competenza biblica, e il dialogo fra noi è fruttuoso. Certo, a livello cattolico, ancora vi è molta sete di conoscere i modi in cui le donne leggono i testi biblici e la storia della Chiesa. Nel protestantesimo italiano più importante appare l’impegno di rinominare il divino uscendo da una maschilità egemonica e violenta, e provando a esprimere il femminile in Dio.
Sul piano ecclesiologico, l’impegno delle donne cattoliche per l’accesso al ministero ordinato sembra seguire le tappe della battaglia compiuta due secoli fa dalle donne nelle Chiese protestanti, anche se gli ostacoli sono più radicati da superare.
Cosa significa essere donna, pastora e teologa in una Chiesa valdese che ha posizioni avanzate nei confronti del ruolo delle donne, delle identità di genere e degli orientamenti sessuali?
Rimane una posizione profetica: il corpo di donna esprime relazioni diverse tra donne e uomini, la parola autorevole di una donna resta un’eccezione, le teologie femministe si occupano ancora di giustizia di genere e di diritti umani delle donne. Quindi, molto è stato fatto e siamo riconoscenti alle pioniere degli studi teologici femministi in ogni campo, ma non basta. L’idea è che la teologia e la fede stiano dentro la storia, e che anche il testo biblico sia un testo storico.
Dunque gioca un ruolo fondamentale la responsabilità dell’interpretazione di fronte alle sfide del presente. Perché questo accada è necessario che nella Chiesa resti vitale l’interrogazione data dalla Parola, in dialogo con la vita delle persone. Una teologa latino americana afferma che anche la vita delle donne è “testo sacro”, così per noi anche la vita delle ultime e degli ultimi è “testo sacro”, che ci interroga attraverso la guida dello Spirito Santo.
Cosa possono fare le Chiese per contrastare la violenza di genere?
È necessario ascoltare le voci delle donne, di non parlare per loro, pericolo in agguato nelle relazioni diseguali di potere e di assistenza. Saranno le donne a raccontare cosa significhi non essere credute, né sostenute dalle famiglie e dalle altre donne. Si tratta di superare l’idea che l’amore si basi sulla sopportazione e sul sacrificio del desiderio. La violenza di genere si sviluppa anche nei confronti di persone omosessuali e transessuali, violenza sia fisica, sia basata su discorsi d’odio e su pregiudizi che alimentano il disprezzo verso soggetti considerati devianti. Le Chiese devono vigilare sul loro parlare, per non alimentare il linguaggio del disprezzo.
Ascoltare e rimettere al centro i racconti delle vittime. È importante che gli operatori e le operatrici pastorali siano formati, che a livello accademico vengano esaminati i testi biblici che giustificano la violenza e la subordinazione di genere. Questo è il perno del mio insegnamento nella Facoltà di Teologia, finalizzato a ridare dignità ai soggetti abbietti e a smantellare giustificazioni teologiche o bibliche di relazioni di dominio. Se le persone possono far sentire la loro voce, sono in grado di trasformare le Chiese e di porle di fronte al Vangelo proprio al cuore delle questioni più urgenti del presente.
Come pastora, cosa pensi del celibato nel sacerdozio cattolico?
Può essere una scelta di vita, ma credo che la persona che esercita un ministero debba vivere le ricchezze e le difficoltà di una relazione d’amore in coppia. In tal modo acquista spessore e conoscenza di tappe fondamentali nell’esistenza di coloro che si rivolgono a lei, a lui. Uno dei problemi delle donne nelle Chiese è stato il trovarsi di fronte dei curatori d’anime solo maschi e incapaci di mediare tra dogmi e vita. Inoltre diventare genitori è un’esperienza così ricca che trovo crudele privarne delle persone in funzione del ruolo. È chiaro che l’imposizione del celibato in ambito cattolico va di pari passo con l’evitazione della sessualità.
L’attenzione deve essere posta su questo, perché la sessualità è dono di Dio, un modo di stare in relazione tra esseri umani con i corpi, una fonte di gioia e godimento. È anche un ambito rischioso, in cui si possono sviluppare rapporti di potere e relazioni soggiogate, quando il desiderio non è rispettato. Perciò l’imposizione del celibato ai preti cerca di evitare uno dei nodi fondamentali delle relazioni umane, impoverendole e irrigidendole.
Quando nasce la collaborazione con il Coordinamento delle teologhe italiane?
Sono una delle fondatrici del Coordinamento, a lungo l’unica protestante (oggi altre si sono associate). Ho partecipato al primo convegno nazionale in Campidoglio. Ma esistevano relazioni ecumeniche tra donne teologhe prima che nascesse il CTI: si collaborava, cercando occasioni per scambi e approfondimenti reciproci, con inviti incrociati a convegni, come al corso di Women’s Studies che per circa quindici anni abbiamo portato avanti come donne protestanti presso la Facoltà valdese di Roma.
Dal 2010 è stato istituito un corso di “Studi femministi e di genere”, di cui sono l’incaricata, che forma i futuri pastore/i. Il CTI ha dato una spinta alle pubblicazioni in italiano e di studiose italiane, e anche io ho partecipato pubblicando libri per me importanti, uno su Mary Daly, e un altro, frutto di un convegno in dialogo con donne musulmane e ebree, sulla figura di Agar.
* Giuseppina D’Urso è volontaria dell’Associazione “La Tenda di Gionata” e di Pax Christi Italia.