Un rifugiato gay dall’inferno della Cecenia
Articolo di Simon Shuster pubblicato sul sito del settimanale Time (Stati Uniti), liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Una notte di fine novembre tre uomini raggiungono la stanza 503 del rifugio di Eisenhüttenstadt, una città al confine orientale della Germania, e cominciano a prendere a pugni la porta, urlando il nome di Movsar Eskarkhanov, un ventottenne richiedente asilo dalla Cecenia, che ha appena terminato le sue preghiere serali.
Molto provato dallo stress del viaggio, Movsar era arrivato in Germania per richiedere l’asilo politico, la prima volta nel settembre del 2013, poi ancora nell’autunno dell’anno scorso, per sfuggire alle persecuzioni anti-gay.
Quando apre la porta, vede che uno dei tre uomini porta una maschera e ha con sé un coltello, ma gli altri due sono facce note: vengono dalla Cecenia, e mentre irrompono nella stanza, un pensiero attraverso la mente di Movsar: Sono venuti per uccidermi.
A partire dallo scorso aprile [2017] nella repubblica russa di Cecenia, profondamente conservatrice e a maggioranza musulmana, è stata segnalata un’ondata di aggressioni contro gli uomini gay, i cui dettagli sono agghiaccianti: la polizia locale ha catturato decine di uomini e li ha torturati in prigioni segrete fino a quando hanno rivelato i nomi di altri omosessuali, poi soggetti allo stesso ciclo di violenze, secondo quanto racconta il quotidiano indipendente Novaya Gazeta. Molte delle vittime sono morte di percosse o torture.
Queste notizie, poi confermate da Human Rights Watch, hanno attirato la condanna dei leader occidentali e costituiscono una svolta drammatica nell’omofobia ufficiale russa.
La campagna omofoba inizia ufficialmente nell’estate del 2013, quando il presidente Vladimir Putin firma la legge che vieta la “propaganda gay” tra i minori; le pene non sono severe, ma la nuova legge dà di fatto alle persone LGBT russe uno status di emarginazione e impedisce loro di difendere pubblicamente i loro diritti: “[Questa legge] dichiara ufficialmente che gay e lesbiche sono esseri inferiori” afferma Elena Klimova, un’attivista lesbica che è incappata nelle pene previste dalla legge nel 2014, e che, assieme alle sue colleghe e colleghi del movimento per i diritti umani, aveva previsto che la legge avrebbe reso possibili campagne violente [contro le persone LGBT].
A giudicare da quanto è successo a Movsar, avevano ragione. Quando il giovane ceceno ha accettato di raccontare la sua storia, le aggressioni non sono lo avevano fatto fuggire dalla Russia, ma lo avevano seguito fino in Germania: la violenza omofoba aveva raggiunto il cuore dei Paesi europei che offrivano protezione alle vittime.
I governi occidentali e i gruppi per i diritti umani che hanno cercato di dare una sistemazione a questi uomini sono incappati in un problema inaspettato, ovvero gli immigrati ceceni spesso pronti a continuare la purga iniziata dalle autorità del loro Paese.
“È un grosso problema per noi: c’è un forte legame tra gli immigrati ceceni in Europa, e quindi anche in certi luoghi in Europa [i gay ceceni] possono essere a rischio” dice Kimahli Powell, direttore esecutivo di Rainbow Railroad (Ferrovia Arcobaleno), un gruppo di attivisti canadesi che cerca di trovare una sistemazione a persone LGBT perseguitate provenienti da tutto il mondo.
Le ragioni vanno ricercate nelle leggi tribali e nell’orgoglio che governano la Cecenia, un Paese montuoso in cui tutto porta ancora le cicatrici delle due guerre d’indipendenza combattute contro la Russia negli anni ‘90.
Ramzan Kadyrov, il leader designato da Putin finite le guerre, ha cercato di imporre la shari’a in maniera piuttosto stretta, anche quando essa confligge con la Costituzione russa.
Kadyrov, con la benedizione del Cremlino, si propone un po’ come il padre spirituale di tutti i Ceceni, anche di quelli che vivono all’estero. La sua campagna contro gli omosessuali riflette la sua missione: trasformare la Cecenia in una società obbediente e fieramente patriarcale, guidata da un codice di condotta che il leader applica a suo capriccio.
Kadyrov ha spiegato in un’intervista televisiva che l’espulsione dei gay serve a purificare la nazione: “Qui non ci sono gay. Se ce ne sono, portateli in Canada. Sia ringraziato Dio! Portateli lontano da qui. Vogliamo purificare il nostro sangue, perciò, se ne trovate, mandateli via”.
Movsar Eskarkhanov ha visto e rivisto questa intervista nel suo rifugio presso Berlino. Diversi Ceceni gliela linkano assieme a minacce e insulti: “Dicono che c’è un demonio dentro di me” dice pochi giorni dopo la messa in onda dell’intervista: “Qui è sempre peggio. Prima che qualcuno mi uccida, voglio raccontare la mia storia al mondo”.
Pochi giorni dopo Movsar, che spesso si fa chiamare con il nomignolo di Mansur, accetta di incontrarmi in una casa protetta per esiliati ceceni a Berlino. Un paio di auricolari gli pende dalle orecchie, è pallido ed emaciato, ma mentre racconta gli occhi brillano di rabbia e orgoglio: “Tutto ciò che sto per dire, lo vorrei ripetere in faccia a Putin. Non me ne frega più nulla” comincia senza perdere un secondo in convenevoli.
Il suo primo incontro con la polizia cecena risale all’estate del 2011. All’epoca si trovava economicamente in cattive acque, viveva a Grozny con l’anziana madre adottiva, e per ripagare i suoi debiti offrì su un sito web un suo rene.
Gli arrivarono moltissimi messaggi di solidarietà e cominciò a corrispondere con un uomo, che diceva di essere un camionista di origine cecena che viveva a Mosca.
Con il tempo, la corrispondenza divenne sempre più intima: giunsero a scambiarsi fotografie, e un giorno d’agosto i due fissarono un appuntamento in Cecenia.
Ma l’appuntamento era una trappola: quando arrivò, Movsar trovò un gruppo di uomini che lo mise su un’auto e lo portò in una foresta vicina, dove lo obbligarono a “confessare” di essere gay, filmando il tutto. Per tenere segreto il video, costoro gli chiesero 200.000 rubli (circa 7.000 dollari) e, quando Movsar non riuscì a pagare, postarono il video online.
La sua unica alternativa, visto l’ostracismo che incontrò in Cecenia, fu di rifugiarsi al nord e cercare di sopravvivere a Mosca e in altre città svolgendo umili lavori, tra cui il pastore nella regione di Stavropol’. L’anno seguente ritornò in Cecenia a trovare sua madre malata.
Un giorno, mentre si stava recando alla preghiera, Movsar fu fermato dalla polizia perché sospettato di essere un simpatizzante terrorista. Raccontò sotto interrogatorio la storia della sua estorsione: per tutta risposta, uno dei poliziotti lo portò in un’altra stanza e cercò di violentarlo.
Vennero poi chiamati due parenti per riprenderselo e “metterlo a posto”. Il tentativo di stupro è impossibile da dimostrare; la polizia non ha voluto commentare e i parenti di Movsar non hanno voluto essere intervistati.
I suoi ricordi, tuttavia, sembrano combaciare con quelli di altri gay arrestati in Cecenia e poi intervistati dagli attivisti per i diritti umani.
In molti casi, dopo aver torturato per giorni quegli uomini nelle prigioni temporanee della città di Argun, le truppe di Kadyrov li hanno restituiti alle loro famiglie, con l’intesa che i parenti maschi li avrebbero fatti fuori per lavare la macchia: “È proprio il concetto di delitto d’onore che rende così pericolosa la loro situazione, non solo in Cecenia, ma anche nella diaspora” dice Kimahli Powell: in Europa, in Nordamerica, ovunque delle comunità cecene abbiano messo radici.
Per un anno intero dopo quel fatto Movsar ebbe paura che gli uomini della sua famiglia adottiva avrebbero potuto ucciderlo.
Il suo orientamento sessuale era ormai un segreto di Pulcinella e il buon nome della sua famiglia era stato macchiato: temeva persino di venire avvelenato con il cibo. Per lui non rimase altra scelta che emigrare, e nell’estate del 2013 attraversò l’Europa orientale fino a raggiungere il confine tedesco.
Centinaia di Ceceni stavano percorrendo la stessa strada per sfuggire al regime di Kadyrov, ma alle loro richieste d’asilo, secondo gli esperti tedeschi e ceceni, non veniva data priorità, soprattutto a partire dal 2015, quando in Germania cominciarono ad affluire centinaia di migliaia di rifugiati dalla Siria, dall’Iraq e dell’Afghanistan: le richieste di asilo che provenivano da quelle zone di guerra avevano la precedenza su quelle che arrivavano da regioni più stabili, come la Cecenia.
Come dice un consulente legale di Berlino: “L’unico modo in cui un Ceceno può dimostrare di aver bisogno di protezione, è arrivare qui con la testa mozzata!”. La richiesta di Movsar è stata debitamente rigettata nel 2016, ed è stato così mandato nel rifugio di Eisenhüttenstadt in attesa di essere rispedito a Mosca.
Dapprima ha trovato conforto nello scoprire che molti degli ospiti erano ceceni, così aveva almeno qualcuno con cui parlare nella sua lingua. Uno degli ospiti, un ragazzo di 14 anni, è risultato essere un suo lontano cugino dalla parte della sua madre biologica, che ha abbandonato Movsar poco dopo la nascita.
È stato uno strano ritrovarsi, e la notizia si è diffusa velocemente nel rifugio: il ragazzo ha un omosessuale nel suo albero genealogico. “Forse avrei dovuto tenere la bocca chiusa” dice Movsar, ma ormai era troppo tardi: i parenti maschi del ragazzo erano furiosi.
Qualche sera dopo, tre uomini si sono presentati alla sua porta mentre si stava preparando per andare a dormire. Uno di essi lo ha afferrato per la gola e gli ha ordinato di seguirlo in strada.
Movsar però si è messo a gridare, e questo ha fatto accorrere un gruppo di richiedenti asilo, perlopiù africani, che hanno cercato di aiutarlo: hanno spaventato gli assalitori e chiamato la polizia, che ha portato poi Movsar al commissariato per interrogarlo.
Andreas Carl, portavoce della polizia del Land di Brandeburgo, ha confermato i fatti: “Tre sconosciuti mascherati hanno minacciato il rifugiato M.E. con un coltellino e hanno poi abbandonato la stanza senza fargli del male. La polizia ha portato il richiedente asilo a un commissariato di polizia, poi, per la sua sicurezza, a [un] centro per richiedenti asilo nel Brandeburgo, privo di ospiti ceceni” ha scritto in una email, usando le iniziali di Movsar Eskarkhanov per rispettare la legge tedesca sulla privacy.
Notare che, nei ricordi di Movsar, solo uno degli uomini indossava una maschera.
Da diverso tempo le autorità tedesche si occupano di tali conflitti interni alla diaspora cecena, e di recente alcuni media hanno dipinto un quadro della situazione molto fosco e forse fuorviante.
Secondo un documentario della ZDF, uno dei maggiori canali pubblici tedeschi, il Cremlino avrebbe inviato in Germania delle spie che si fingono rifugiati ceceni; un articolo pubblicato da Meduza, un notiziario lettone in lingua russa, afferma invece che un gruppo organizzato di circa 80 immigrati ceceni ha cercato di imporre alcune leggi della shari’a in Germania, in alcuni casi minacciando fisicamente delle donne cecene e aggredendo i loro amici maschi.
“Non è vero nulla. Non c’è nessuna buoncostume cecena che gira per Berlino” dice Ekkehard Maass, un attivista tedesco che impiega molto tempo ed energie per aiutare i rifugiati ceceni, ammettendo però che in effetti i Ceceni portano con loro i propri codici morali, e che i servizi di sicurezza di Kadyrov hanno anche tentato di infiltrare degli agenti tra gli immigrati, o perlomeno di conquistare il loro sostegno: “Perciò, la paura che c’è in Cecenia, ora c’è anche qui”.
Movsar ora vive con questa paura nel suo nuovo rifugio alla periferia di Berlino. Passa gran parte del suo tempo seduto sul letto a leggere le minacce e gli insulti che riceve via web da altri Ceceni.
Ha pensato anche al suicidio, ma ciò che per lui è più frustrante è vedere che buona parte delle minacce vengono da rifugiati ceceni in Germania: “Qui Angela Merkel ha sbagliato”.
La sua domanda definitiva di asilo è stata rigettata e il governo tedesco gli ha ordinato di lasciare il Paese. La sua più grande speranza per il futuro è spostarsi in un Paese con una comunità di Ceceni meglio integrata, o dove proprio non ce ne sono: “Non avrei mai voluto mettermi contro il mio popolo, ma noi gay ceceni possiamo andare ovunque, possiamo andare anche su Marte, ma se lì troviamo altri Ceceni, non ci lasceranno mai vivere in pace” dice in tono di sfida, che però sfuma verso il rimorso.
Testo originale: ‘THEY TELL ME A DEMON LIVES INSIDE ME’