Viaggio nel desiderio omoerotico indiano e nella sua omofobia coloniale
Intervista di Sneha Khaund* a Ruth Vanita pubblicata sul sito Feminism in India (India) il 25 aprile 2016, liberamente tradotta da Giacomo Tessaro
Di recente si è molto parlato sulla stampa dei fondamentali cambiamenti legislativi relativi al matrimonio omosessuale nei Paesi dell’Occidente. Partendo da Facebook, che offre la possibilità di modificare temporaneamente l’immagine del profilo per mostrare il proprio sostegno al movimento, per arrivare alla Lok Sabha [la camera bassa del Parlamento indiano n.d.t.] che vota contro l’ennesimo tentativo di legalizzare l’omosessualità, il popolo indiano non è rimasto tagliato fuori dallo sviluppo dei diritti LGBTQ. Tutto questo però induce molti, inclusi i fondamentalisti di destra, a credere che il desiderio omoerotico sia un concetto occidentale.
Ho fatto una chiacchierata con Ruth Vanita per comprendere la lunga storia dell’amore e del matrimonio omosessuale in India e come la ricerca accademica possa essere utilizzata con successo dagli attivisti. Nata in India, dove ha compiuto tutto il suo percorso di studi, Ruth ha insegnato per 20 anni all’Università di Delhi e ora insegna all’Università del Montana. Molto rispettata in ambito accademico per il suo lavoro pionieristico sulla sessualità e la letteratura dell’Asia del Sud, ha pubblicato libri come Same Sex Love in India (L’amore omosessuale in India), curato assieme a Saleem Kidwai, e Queering India (L’India queer), fondamentali nell’ambito degli studi di genere, con i quali ha mostrato che l’India possiede una lunga tradizione di desiderio omoerotico e che quindi l’omoerotismo non è esclusivo appannaggio dell’Occidente.
Ha dimostrato ampiamente che non è l’omosessualità, bensì l’omofobia che l’India ha ereditato dall’Occidente colonizzatore, come sostiene nel suo ultimo libro Gender, Sex and the City: Urdu Rekhti poetry 1780-1870 (Il genere, il sesso e la città: la poesia rekhti in lingua urdu 1780-1870). Ruth è inoltre cofondatrice di Manushi, periodico femminista da lei curato tra il 1978 e il 1999, con il quale ha dimostrato con successo che la ricerca accademica e lo zelo degli attivisti sono complementari.
Lei si è specializzata nell’amore omosessuale nell’epoca precoloniale. Perché è importante guardare al passato per parlare del presente?
La distinzione tra presente e passato è artificiale: dove finisce il passato e dove inizia il presente? Dieci anni fa, dieci settimane fa, dieci minuti fa? Mentre stiamo parlando, il presente diventa passato. Il colonialismo ha cancellato molte delle memorie del nostro passato precoloniale, ma non tutte. La memoria del sesso omosessuale è solo un esempio. Numerosi Indiani istruiti pensano che l’amore omosessuale sia stato importato dall’Occidente o dal Medio Oriente e che fosse sconosciuto nell’India antica. Anche oggi, gli studiosi dell’Asia del Sud tendono a parlare quasi esclusivamente del periodo coloniale e di quello postcoloniale.
Il colonialismo è solo un momento, oltretutto recente, della lunga storia del subcontinente, ma tendiamo a esagerare la sua importanza. La ricerca sulla storia della sessualità nelle letterature indiane è stata una rivelazione per me perché mi ha aperto gli occhi su quell’argomento ma anche su molti altri. Leggendo i poemi epici, i Purana, la letteratura katha e la più recente (XVIII secolo) poesia urdu non mistica ho dato uno sguardo ai dibattiti, molto vari e sorprendentemente sofisticati, delle letterature indiane riguardo a tutto ciò che sta sotto il sole, dal vegetarianesimo al genere, dalla sessualità alla natura della conoscenza e della comunicazione.
Le sue opere sul desiderio lesbico e i veli che ha sollevato sulle storie delle donne sono state pionieristiche nel campo degli studi di genere. Secondo lei, l’attuale movimento LGBTQ in India manca di un’adeguata discussione sulla sessualità delle donne?
No, non direi. Penso che il movimento LGBT (che ha molte diramazioni e gruppi in tutto il Paese) include eccome tale discussione e ha anche incoraggiato il movimento femminile in generale a discutere la sessualità molto più di quanto facesse prima. Tra il 1978 e il 1991, quando ero attiva nel movimento delle donne e curavo Manushi, la sessualità veniva discussa quasi sempre in termini di violenza, stupro e molestie, come fardello e non come fonte di piacere. Se tutto questo oggi è cambiato, lo dobbiamo in gran parte al movimento LGBT.
Recentemente, il matrimonio omosessuale è stato molto sostenuto a livello legislativo nei Paesi dell’Occidente; molti pensano che questo sia uno sviluppo a loro peculiare. Fino a che punto è d’accordo con questo?
Il mio interesse per il matrimonio omosessuale in India nacque dalle notizie che cominciarono ad apparire regolarmente sulla stampa indiana a partire dal 1980 su giovani coppie femminili che o si sposavano o si suicidavano insieme. Erano quasi tutte ragazze che non conoscevano l’inglese, provenienti da gruppi a basso reddito che non avevano contatti con gruppi femministi o omosessuali e non usavano parole come “gay” e “lesbica”.
Questo accadeva molto prima che in Occidente nascesse il movimento per il matrimonio omosessuale. Anche giovani coppie eterosessuali fuggivano di casa per sposarsi o commettevano un doppio suicidio. Volevo scoprire come avevano fatto le coppie omosessuali a sviluppare l’idea di sposarsi quando il movimento non mirava ancora a quello. È chiaro allora che la difesa dei diritti LGBT non deriva dall’influenza occidentale ma dai bisogni della gente e ha legami con le nostre tradizioni.
Lei pensa che i recenti sviluppi in Occidente abbiano creato la percezione che la difesa dei diritti LGBTQ sia un ideale occidentale che i Paesi in via di sviluppo devono imitare?
C’è ogni tipo di falsa credenza che gira per il mondo, non solo in India. Una falsa credenza dura a morire è che l’omosessualità stessa sarebbe un articolo di importazione occidentale. Le mie ricerche, tra le altre, hanno dimostrato che non la sessualità omoerotica bensì l’omofobia moderna è stata importata dall’Occidente. Negli Stati Uniti si crede falsamente che le persone LGBT vogliano “diritti speciali”.
In realtà, le persone LGBT vogliono semplicemente gli stessi diritti garantiti ai cittadini dei Paesi democratici e gli stessi diritti umani garantiti dai documenti dell’ONU, firmati anche dall’India. Per esempio, quando un uomo o una donna, cittadini indiani o di origine indiana, sposano qualcuno del sesso opposto (anche il giorno stesso in cui si sono incontrati), il coniuge automaticamente ottiene un certo numero di diritti: per esempio, il diritto di vivere permanentemente nel Paese. Due donne o due uomini, invece, anche se vivono assieme da decenni, non ottengono nessuno di questi diritti.
Quindi, la credenza che la difesa dei diritti LGBT sia un ideale occidentale è falsa. Le persone LGBT hanno diritto ai loro diritti civili e umani. Lo richiede la democrazia e non ha niente a che vedere con l’est o l’ovest, il nord o il sud. Il Sudafrica garantisce tali diritti e così fanno il Brasile, l’Argentina e il Nepal. Il Giappone e la Cina hanno legalizzato le relazioni omosessuali prima degli Stati Uniti. La nostra ossessione per l’Occidente sfocia nel desiderio regressivo di imitarlo e al tempo stesso di sfidarlo. Invece di agonizzare eternamente sulla presunta, completa incompatibilità di Oriente e Occidente, avrebbe più senso concentrarsi su ciò che richiede la democrazia.
In che modo il desiderio omoerotico dell’Asia del Sud contribuisce alla discussione globale sui diritti LGBTQ?
C’è tutta una lunga storia, nella letteratura indiana, di discussioni a proposito delle relazioni omosessuali, in molti registri diversi, dall’esegesi non giudicante alla blanda disapprovazione degli asceti verso ogni desiderio non riproduttivo, alla celebrazione gioiosa. Abbiamo uno splendido scrigno di scritti sulle relazioni omosessuali in sanscrito, in bengali, in malayalam, in urdu, in rajasthani, in hindi e in molte altre lingue. Gran parte di questa letteratura non è stata tradotta; quando viene tradotta e letta da molti, offre punti di vista diversi.
Per esempio, in nessuna parte del mondo esistono storie paragonabili ai racconti bengalesi del XIV secolo (in sanscrito e bengali) di due donne che mettono al mondo e allevano un bambino assieme, con la benedizione divina. La poesia in urdu prodotta a Lucknow tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo è unica per la ricchezza dei termini che descrivono le unioni tra donne e le vivaci descrizioni di queste unioni inserite nella vita di tutti i giorni.
Oggi il movimento LGBT si esprime oltretutto nei termini specifici della cultura indiana; per esempio, quando l’attivista transgender Abheena Aher ha interpretato la canzone iconica Pyar Kiya to Darna Kya? (Quando si ama, perché mai si dovrebbe avere paura?) tratta dal film Mughal-e Azam nella Giornata Mondiale della Rabbia del 2013 a Delhi, il significato di quel momento e l’eccitazione con cui fu accolta dalla folla non è traducibile. Ha funzionato per via della nostra lunga storia letteraria e cinematografica che celebra la disobbedienza per amore, a modo nostro. Siamo cresciuti ascoltando per decenni le storie, che si raccontano in tutto il Paese, di amanti che sono morti per non essere separati: non c’è molta differenza tra Heer e Ranjha o Salim e Anarkali e le giovani coppie etero e omosessuali che fuggono da casa per sposarsi nei templi o si suicidano insieme.
In che modo l’attività accademica può essere utilizzato per un attivismo che raggiunga vasti strati di pubblico?
L’attività accademica che evita il gergo da iniziati ed evidenzia le fonti primarie invece che l’intelligenza di chi scrive può essere accessibile a chiunque. Quando lavoravo per Manushi ho imparato a tradurre idee complesse in un linguaggio semplice che chiunque potesse leggere. Non sono mai stata in grado di disimparare questo modo di scrivere e non ho nemmeno utilizzato il linguaggio della teoria, anche se farlo mi avrebbe probabilmente schiuso molte opportunità di carriera.
Inoltre, preferisco scoprire ed evidenziare le caratteristiche positive di ogni tradizione piuttosto che quelle negative. La cultura moderna in generale, e quella accademica in particolare, tende a scindere le cose, il che è molto facile; ma per poter costruire e raggiungere la gente dobbiamo apprezzare criticamente il nostro retaggio comune. Rumi suggerisce che nel giardino del mondo dovremmo guardare i fiori e non le spine. Con una simile disposizione di spirito, Tulsidas apre il suo poema epico inchinandosi di fronte a ogni essere nel mondo, inclusi i suoi nemici, perché li vede come manifestazioni di Rama.
* Sneha Khaund studia letteratura comparata a Londra. Nel 2015 si è diplomata a Delhi, dove ha combattuto il coprifuoco per le donne negli ostelli. Ha la grande passione di rendere l’attività accademica accessibile ai lettori non specialisti.
Testo originale: “Not Same-sex Sexuality But Modern Homophobia Is The Western Import”: Ruth Vanita