I coming out che non ho fatto
Brano di Gianluca Tornese tratto dal romanzo Marito & Marito, Claudiana editrice, 2012, pag.17-18
Per anni avevo continuato a immaginare mille circostanze per il coming out con i miei. La mia mente aveva girato numerosi provini, l’uno diverso dall’altro, ma poi la “prima” non c’era mai stata. Le sceneggiature inventate erano estremamente varie e forse rispecchiavano i momenti durante i quali venivano elaborate. Nei momenti sereni avevo pensato all’opzione «riunione di famiglia»: salotto di casa, tutti insieme, genitori, fratello, sorella, cognata e cognato accomodati sui divani buoni per ascoltare la proclamazione.
Una volta mi era anche venuto in mente che dopo un iniziale discorso semi-serio: «Se vi ho riunito qui, è perché c’è una cosa importante che vorrei dirvi. Non è facile per me, ma credo sia arrivato il momento di farvi partecipi di una parte della mia vita, o forse della mia vita stessa», avrei potuto aprire la camicia e mostrare una maglietta rosa con la scritta di paillettes «SONO GAY!!!», giusto per non avere l’imbarazzo di sentirlo pronunciare dalle mie labbra e per vederli svenire tutti e sei in un colpo solo.
Quando, invece, prevaleva la parte tempestosa del mio carattere, pensavo di fare la rivelazione durante una delle numerose litigate e sfuriate che contraddistinguevano il rapporto con i miei. Magari avrei cominciato da una lite per una cena familiare mancata e sarei arrivato (con voli ben più che pindarici) ad ammettere la mia omosessualità, oppure sarei andato alla cena e avrei detto: «Questa pasta è proprio “sciapita” e io sono gay! Mi passate il sale?».
Ci pensavo anche quando vedevo trasmissioni come C’è posta per te o Carramba! Che sorpresa, e immaginavo già la Maria De Filippi o la Raffaella Carrà di turno raccogliere da terra un’intera famiglia dilaniata da una notizia del genere.
Una volta, in prossimità delle elezioni politiche, ero quasi andato vicino a dichiarare tutta la verità. Essendo l’unico sinistroide in famiglia, il resto destrorso aveva cercato di convertirmi con obiezioni del tipo: «Ma davvero tu vuoi che ci siano matrimoni contro natura anche in Italia?». In quell’occasione fui seriamente tentato di rispondere: «Magari…», e continuare vuotando il sacco, ma poi mi ero limitato a difendere le mie posizioni spostando il discorso su un ambito più generale.
Quando venivo a contatto con amici che vivevano tranquillamente la loro omosessualità nelle loro famiglie d’origine, era impossibile non pensarci. Invidiavo tremendamente la loro serenità: non dovevano mentire con le persone che li avevano generati e che, nel bene o nel male – pur con tutti i loro limiti – avevano contribuito alla loro crescita.
Ogni volta che mi autoconvincevo dell’opportunità di uscire allo scoperto con loro, non riuscivo ad arrivare fino in fondo, facevo marcia indietro e deviavo il discorso verso lidi più tranquilli.
Pensavo sempre a una scena del mio film cult, Le fate ignoranti, quando Luisella (la napoletana) spiazza Antonia (la moglie del bisex) rinfacciandole: «Cosa non è giusto? Mentire a quelli che ami? Ma se poi gli dici la verità magari loro non ti amano più». E così, nel timore di non essere più amato, preferivo fingere. «È pericoloso dire la verità» parafrasava l’amico Riccardo nella stessa scena del film.