La Cena di Gesù, il rito e il suo “ricordo pericoloso”
Riflessioni di José Maria Castillo* pubblicate sul suo blog Teología sin Censura (Spagna) il 23 maggio 2016, liberamente tradotte da Dino
Se la Chiesa vuole rinnovarsi seriamente e profondamente, una delle prime cose che dovrebbe fare è rinnovare seriamente e profondamente il ricordo di Gesù, non solo ricordando quello che avvenne quando Gesù andava per il mondo, ma attualizzando quello che avvenne allora. Vale a dire, la liturgia dev’essere celebrata in modo tale che diventi presente in ciò che viviamo adesso, tutto quello che Gesù visse, fece e decise quando era in questa vita. Precisamente quello che avvenne la notte in cui, per l’ultima volta, cenò col gruppo di persone che lo avevano accompagnato ed avevano condiviso ciò che Egli visse e come lo visse. In quell’occasione Gesù disse: “Fate questo in mio ricordo” (1 Corinzi 11:24-25; Luca 22:19); frase che voleva dire: “Fate questo per avermi presente”, come spiegherò in seguito.
Quello che ho appena affermato si basa su un presupposto: l’ultima cena di Gesù coi suoi discepoli non fu un rito religioso. Il rito della “cena pasquale” che celebrano gli ebrei in occasione della pesah, la festa dell’agnello, che segnò il punto di inizio della liberazione degli ebrei schiavi in Egitto (Esodo 12). Certo, sappiamo che, secondo i Vangeli sinottici, l’ultima cena è stata la cena di Pasqua (Marco 14:12; Matteo 26:7; Luca 22:7). Ma il Vangelo di Giovanni, che è stato scritto in un tempo successivo ai sinottici, puntualizza questo dato fondamentale indicando che la cena venne celebrata prima della Pasqua (Giovanni 13:1: 18:28), cosicché Gesù morì il giorno della Preparazione della Pasqua (Giovanni 19:14; 19:31-42). E san Paolo, che ci ha tramandato il più antico ricordo della cena, non accenna alla Pasqua (1 Corinzi 11:23). Inoltre, in nessuno dei racconti della cena viene citato l’agnello pasquale, non si parla delle erbe amare né del pane azzimo, né dell’haggadah, né del primo hallel, né si menzionano le quattro coppe che erano essenziali nel rito ebraico della Pasqua. Nemmeno c’è traccia o qualche indizio che in quel luogo si stesse celebrando un rito sacro (Ulrich Luz, Il Vangelo secondo Matteo, vol IV, Brescia, Paideia, 2014).
Quindi, se quello non fu “un rito sacro”, ma una “cena” durante la quale fu vissuta una serie di esperienze molto forti, quando Gesù dice ai suoi amici (Giovanni 15:14-15): “Fate questo in memoria di me” (1 Corinzi 11:25) oppure “Fate questo per avermi presente”, allora senza alcun dubbio il termine “questo” (touto) comprende l’intera cena, non soltanto il pane, ma l’insieme delle esperienze vissute in quel luogo in quella notte (François Bovon, Il Vangelo secondo san Luca, vol III, Brescia, Paideia, 2013). Fare quello che Gesù disse non significa ripetere stancamente un rituale ma attualizzare (rendere presente e operante oggi) ciò che fu vissuto in quel luogo in quella notte. Il “ricordo”, “anamnesis” secondo la radice originale zkr, significa “far presente il passato” (H. Patsch, in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, vol I, Salamanca, Sígueme, 2005, pp. 251-254).
Attenzione però che questi dati non sono semplici sfumature – peraltro molto elementari – di erudizione. Nulla di tutto ciò. Qui è in gioco il riconoscere oppure il disconoscere quello che era il reale volere di Gesù. Sappiamo che Gesù non amava né praticava riti, cerimonie, altari, templi. Gesù focalizzò le sue preoccupazioni su tre cose: “la sofferenza umana” (guarigioni), “l’alimentazione condivisa” (pranzi e convivialità, soprattutto con i poveri) e “le relazioni umane” (discorso della montagna, in Matteo, o della pianura, in Luca). Agendo in questo modo, Gesù ha dato un’altra collocazione alla religione: l’ha fatta uscire dal tempio, l’ha dissociata dai “riti” e l’ha posta al centro della “vita”, compenetrandola in essa.
Qui e in questo sta la chiave e il segreto di tutto il resto. Perché? Perché oggi è ampiamente dimostrato che i riti costituiscono un fattore così importante nella sopravvivenza delle società umane che, da tantissime generazioni, i riti (religiosi, politici, sociali…) sono decisivi nell’integrazione o nell’esclusione dell’individuo nella società e in generale nel sistema istituito (Walter Burkert, La creazione del sacro, Milano, Adelphi, 2003; Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, Torino, Boringhieri, 1981). Ma non si tratta soltanto di questo, perché i riti integrano il soggetto nel sistema in modo tale che il soggetto fa suoi i valori del sistema, ma allo stesso tempo gli stessi riti non modificano il comportamento del soggetto che li compie. In pratica, un credente pio può trascorrere quarant’anni comunicandosi ogni giorno e alla fine di questo tempo continuare ad avere gli stessi difetti che aveva il giorno in cui iniziò la sua comunione quotidiana. Il fatto è che il rito, di per sé, non solo non modifica il comportamento, ma ha anche la capacità di tranquillizzare la coscienza dell’osservante.
Allora, cosa voleva dire Gesù quando durante la cena affermò: “Fate questo in memoria di me”? Non si riferiva semplicemente al ripetere quelle che ora chiamiamo “le parole della consacrazione”, perché questo riferimento al ricordo o memoria (anamnesis) venne introdotto da san Paolo (1 Corinzi 11:24-25), dal quale dipende il racconto di Luca (22:19), per esortare la comunità di Corinto, dicendo a quei cristiani che ciò che essi facevano – e il modo in cui lo facevano – in realtà non era la cena del Signore. Letteralmente: “Questo non è mangiare la cena del Signore” (“oúk éstin kyriakòn deipnon phagein”) (1 Corinzi 11:20) (H. Patsch, o. c., 252-254). Vale a dire che a Corinto, pur celebrando correttamente il rito, in realtà non celebravano l’eucaristia. Perché? Perché la comunità di Corinto era divisa, non a causa di concezioni teologiche ma per il tipo di vita che conducevano, perché c’erano ricchi e poveri. E quando si riunivano per l’eucaristia, i ricchi mangiavano a crepapelle mentre i poveri rimanevano con la fame (1 Corinzi 11:21). A Corinto cioè succedeva che venivano ripetute le parole del Signore ma non c’era una comunità unita nella quale chi aveva denaro e cibo li condivideva con gli altri. Ciascuno pensava per sé. E Paolo dice: dove c’è divisione tra ricchi e poveri, anche se le parole di Gesù vengono ripetute di frequente e in modo corretto, in realtà la memoria di Gesù è assente. Gesù non viene ricordato. In queste condizioni verrà sì celebrata la messa, ma lì non c’è Gesù (J. D. Crossan, J. L. Reed, In cerca di Paolo, Estella, Verbo Divino, 2006, 398-405).
Conclusione: l’Eucaristia non consiste nel “dire messa”, osservando esattamente ciò che ordina la Sacra Congregazione dei Riti (o del Culto Divino). Si può fare ciò e non celebrare la Cena voluta da Gesù nel modo in cui Gesù la volle: facendoci servi gli uni degli altri (Giovanni 13:12-15), amandoci gli uni gli altri come Egli ci ha amato (Giovanni 13:33-35), intingendo tutti nello stesso piatto come Egli fece (Giovanni 13:20). Celebrare l’Eucaristia non consiste nel ripetere alla lettera un “rito”.
Questo è una messa che ci tranquillizza (e ci offere un metodo di devozione). Ma non è ciò che Gesù aveva istituito e che voleva: il “ricordo pericoloso” (Johann Baptist Metz, La fede nella storia e nella società. Studi per una teologia fondamentale pratica, Brescia, Queriniana, 1985), che rende attuale la sovversione di quei presunti valori che si sostengono ripetendo i riti. Quello che Gesù istituì è un “progetto di vita” che si esprime simbolicamente e rende presente la persona e la vita di Gesù nelle nostre vite e nella nostra società.
Il giorno in cui sarà più “pericoloso” andare a messa che presenziare ad una manifestazione, quel giorno comincerà ad esserci la certezza che stiamo celebrando la Cena del Signore, nella quale noi cristiani viviamo la presenza, nel vivo ricordo di quel Gesù che “accettò il ruolo più basso che una società possa attribuire, quello di delinquente giustiziato”, (Gerd Theissen, Gesù e il suo movimento. Storia sociale di una rivoluzione di valori, Torino, Claudiana, 2007). Allora ci sarà la certezza e la gente potrà toccare con mano che la messa non è un semplice “rito” ma un “ricordo pericoloso”.
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* José Maria Castillo è dottore in teologia ed ex sacerdote gesuita spagnolo.
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Testo originale: Renovar la Iglesia es hacer actual el “recuerdo peligroso” de Jesús