A Ragusa abbiamo vegliato per ricordare che il Signore ama le persone LGBT+ “così come sono”
Riflessioni di Eluana del gruppo Cristiani LGBT+ Sicilia
Il 10 Maggio di quest’anno Ragusa ha visto la felice presenza nella sua città di Teresa Forcades, monaca benedettina, ma anche teologa, medico di medicina generale e attivista sociale. Per due ore, le circa 450 persone di ogni età presenti, molti religiosi e religiose, madri, padri e figli, hanno ascoltato i concetti espressi in modo chiaro e facilmente comprensibile, dalla monaca che è stata invitata da Agedo Ragusa e dai Cristiani LGBT+ Sicilia, a intessere un “Dialogo per un cammino di liberazione e inclusione”.
Il giorno successivo a questo riuscito evento si è svolta per il terzo anno consecutivo la veglia di preghiera per il superamento dell’omobitransfobia. Circa 80 persone hanno partecipato a questo momento, un risultato gratificante per i Cristiani LGBT+ Sicilia che, con le poche forze a loro disposizione, cercano di costruire un dialogo passo dopo passo con la diocesi.
Il versetto scelto quest’anno “Siate forti, fatevi animo, non temete e non vi spaventate di loro, perché il Signore tuo Dio cammina con te; non ti lascerà e non ti abbandonerà” (Deuteronomio 31:6), ha spinto i promotori della veglia a trasmettere un messaggio di consapevolezza e di speranza.
Si è creata un’atmosfera densa e intensa in cui si è respirata l’idea che un sogno, se sostenuto da tanti, può diventare realtà. Intercalata da preghiere e testimonianze, la veglia ha offerto un momento di riflessione attraverso l’utilizzo di un segno. In una mappa del mondo erano stati appuntati dei foglietti al cui interno veniva narrata una storia reale di omotransbifobia. Ogni partecipante ha preso un foglietto e al suo posto ha incollato un cuore Rainbow, trasformando metaforicamente un gesto d’odio in un gesto d’amore. Ognuno può fare la sua parte perché, in ogni angolo del mondo, ci si possa sentire figl*di Dio e sempre a casa.
Vogliamo riportare qui l’esperienza che Andrea, un ragazzo del gruppo Cristiani LGBT+ Sicilia, ci ha raccontato durante questo prezioso momento.
Vorrei che per un attimo quelli che mi conoscono facessero finta di non sapere chi sono. Quelli che non mi conoscono partono avvantaggiati perché non dirò chi sono. Non al momento. Una testimonianza, così, come se fosse anonima, ma che in realtà è la mia. E la farò così: senza nome, senza identità; niente “gay, etero, bisessuale…”, niente “cattolico, credente, praticante, ateo, di un’altra religione”. Il nulla. L’invisibile. Anzi il non visto.
Perché è così che mi sono sentito anni fa, negli anni che avrebbero dovuto essere i più spensierati della mia vita: io ero il non visto. Il cognome da sempre storpiato; il nome, forse a malapena quello; quello che ancora oggi è in vetta a chissà quale futile classifica sui nomi da mettere a bambine o bambini. Per non parlare del mio carattere, letteralmente schiacciato da odiosi bullismi. Non c’era posto per la gentilezza, la sensibilità, la diversità, l’inclusione.
Era marzo 2002, avevo tredici anni e uno di quei primi telefonini che non era nemmeno mio e nemmeno dei miei genitori, ma di una zia giovane che tanto non lo usava e allora… E anche questo metteva benzina su un fuoco che poi era puro bullismo. Come quel pregiatissimo liquore ricco di alcol. Ci fosse un’etichetta si leggerebbe: 80% omofobia, 20% paura del diverso, del sensibile e anche…del cristiano.
Sì, perché questa testimonianza non parla solo di odio verso l’omosessualità ma anche di repulsione verso chi fa un cammino di fede.
Marzo 2002, dicevo. Gita della terza media, forse una di quelle cose che piace tanto ai ragazzi. Quanto sognai che quel giorno arrivasse! Ho sempre avuto una fervida fantasia, quindi lo desiderai così tanto da idealizzarlo in ogni dettaglio. Ogni fantasia fu totalmente disattesa, già agli inizi della gita. Andammo a Napoli in pullman. Otto ore di totale silenzio per me, mentre per gli altri era il tempo della baldoria, delle battute con professoresse e professori, del walkman con le cuffiette e le canzoni del momento. Nessuno che mi rivolse la parola, a nessuno importava se stessi facendo un buon viaggio, se mi stessi divertendo, se stessi bene.
E quando provavo a farmi avanti, ricevevo solo battutine “da femmina”. Ma la parte bella deve ancora arrivare: arrivavamo a Napoli nel pomeriggio, tempo di sistemare i bagagli in albergo, sistemarci, riscendere e andare a mangiare in uno di quei ristoranti in centro convenzionati con le scuole. I professori dissero che qualcuno poteva anche avere tempo di una doccia così da non accavallarsi tutti la sera al rientro. Allora ai miei compagni di camera dissi che avrei tanto desiderato farla io la doccia e loro stranamente furono molto gentili e acconsentirono. Quando faccio la doccia canticchio, da sempre.
All’epoca mi martellava in testa un nuovo brano che stavamo imparando per Pasqua col coro della parrocchia quindi mi venne di cantarlo. Mentre canticchiavo sentivo urla e schiamazzi. Cantavano “Osanna al frocio eh”, mi davano del finocchio e mi deridevano perché credente… Quando decisi di uscire dal bagno erano lì: mi spinsero forte dandomi del frocio, mi tolsero via l’accappatoio, mi chiusero in bagno e se ne andarono. E io continuavo a sentirli anche quando la loro voce pian piano scompariva. E mi lasciarono lì, da solo, nudo, chiuso a chiave. Perché finocchio, perché canto in un coro.
Non so dire con precisione quanto a lungo rimasi in bagno, ma che importava. Io so per certo che nemmeno i professori si accorsero subito di questa assenza; che mi rimproverarono perché dovettero tornare indietro per venirmi a recuperare; che credevano a chi gli diceva che ero talmente un ritardato da aver rotto la porta ed essermi chiuso dentro; che dovevo sentirmi in colpa perché avremmo fatto una pessima figura al ristorante.
A nessuno venne il dubbio di chiedere cosa fosse successo. E io ricordo ancora i frastuoni delle prese in giro e delle risate; ricordo che quella sera ruppero un bicchiere di cui io e un altro compagno di classe ritrovammo i cocci di vetro tra le lenzuola dei nostri letti; ricordo tante cose, anche quelle che non racconterò qui…ma le mie sensazioni non le ricordo e per questo mi domando sempre: ma cosa ho provato quella volta? Come mi sono sentito, ho forse pianto? Avevo solo 13 anni. E lo ricordo bene quel giorno in cui decisi che dovevo riflettere sul da farsi.
Pensate: per un solo secondo avevo perfino pensato che fosse buona cosa smettere di vivere. Un secondo!
Non oso immaginare cosa poteva accadere; ricordo che quell’anno già una ragazzina della mia stessa età si era suicidata, discriminata perché obesa. E penso tuttora a cosa sarebbe successo se quel secondo fosse durato poco di più. Ricordo anche che riuscii a scappare di casa per circa quattro ore a dire il vero, nulla di che…
Poche persone sanno cosa è successo quel marzo 2002 in quella meravigliosa città partenopea. Nemmeno i miei più cari amici, nemmeno voi cari e amati ragazzi e ragazze del coro! Sapete, lo dico a tutti voi qui presenti, non ricordo nulla dei monumenti, dei luoghi visitati di quella gita. Niente di niente. E allora a distanza di anni avevo sempre chiesto al Signore come una sorta di riscatto, di quelli belli, di quelli che danno pienezza e compimento a un cammino che, per quanto impervio, aveva sicuramente una ragione d’essere.
Nel 2019 ritornai a Napoli e per me fu come la prima volta. Dopo diciassette anni, devo riconoscere che tantissime cose erano e sono cambiate: quell’anno feci il mio primo ritiro come persona CREDENTE LGBT. Ho visitato luoghi, pregato e cantato come persona LGBT.
Come figlio riconciliato al Padre, che mi ha ricordato e mi ricorda sempre che io esisto, che ho valore ai suoi occhi, che mi ha amato perché mi ha chiamato per nome. Non sono più invisibile, anzi il non visto.
Sono una creatura di Dio, che “cammina con me, che non mi lascerà e non mi abbandonerà” (cfr. versetto veglia). Sono credente. Sono una persona omosessuale. E oggi posso anche dire che sono un insegnante, così anche per dire ad alta voce che voglio essere vicino a ragazzi e ragazze che hanno tanto bisogno nel percorso più difficile della loro vita educativa e formativa.
Ma la più importante fra tutte è che sono consapevole che il Signore mi ama proprio così come sono. Col nome che mi ha dato: sono Andrea!