Articolo di Damián L. Martino tratto dal sito Pagina12 (Argentina) il 22 ottobre 2010, liberamente tradotto da Franco Morelli
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Avevano entrambe 37 anni quando fecero la scoperta dell’amore e del piacere, l’una tra le braccia dell’altra. Prima di allora non osavano neppure pronunciare la parola “lesbica”. Donne sposate, con una relazione quasi familiare fra le due coppie, Norma Castillo e Ramona “Cachita” Arévalo arrivarono a sfidare, nonostante tutto, la loro educazione cattolica, le loro vergogne segrete, i loro pregiudizi. Oggi, 30 anni dopo, dirigono il primo centro di pensionati lesbiche, gay, bisex e trans (LGBT) e aspettano che la Legge dia loro la possibilità di sposarsi.
Una porta celeste, che spicca in mezzo a pareti bianche, separa la monotonia del quartiere del porto di Parque Chas dal calore familiare e gioioso che Norma Castillo e Ramona “Cachita” Arévalo hanno dato alla loro casa di Bucarest al 1400.
Lì i visitatori sono benvenuti a qualunque ora del giorno, quasi un modo di prepararsi per trasformare il loro focolare in un centro culturale lungamente desiderato.
Norma e Cachita hanno esattamente la stessa età: 67 anni. Insieme da trenta anni, sottoscrissero la loro unione civile a giugno dell’anno scorso con una festa che vide riunito tutto il vicinato.
Comunque quello che esse vogliono è sposarsi e per questo sono ricorse alla Giustizia, che però non ha ancora risposto. Per loro è giunta finalmente l’ora di raccontare al mondo quanto fu loro impossibile per tanto tempo.
Ed è che questi trenta anni di vita di coppia (entrambe ritratte nella foto in basso) li hanno vissuti in clandestinità, in un paese della Columbia, nel quale si trasferirono con i loro mariti e, nel caso di Norma, scappando anche dalla repressione dell’ultima dittatura militare.
Tornare in Argentina è stata anche occasione per rompere il silenzio, per unirsi ad altre persone, come stanno facendo nel primo Centro per Pensionati LGBT di Argentina, del quale Norma è presidente. E’ la sua voce quella che parla in questa intervista, mentre la sua consorte – anche se non lo è legalmente – conferma, arrossisce e si stupisce per la strada che hanno percorso e per quella svolta che insieme intrapresero una notte, grazie al rhum, al caldo e alle danze, quando un morso all’orecchia aprì la porta a quello che non avrebbero mai immaginato.
Come vi siete conosciute? Conobbi Ramona nel marzo del 71, tramite Julio, mio marito. Era la moglie del cugino di mio marito e viveva con lui in Uruguay. Cachita era venuta con il marito in visita in Argentina, per stabilirsi poi definitivamente in Columbia, che era il Paese d’origine di mio marito e di tutta la sua famiglia. Allora avevo 28 anni, era da poco che ero sposata e vivevo a La Plata. Fu quella la prima volta che ci incontrammo e non ci rivedemmo fino al 77, quando Julio ed io scappammo per trasferirci nel paese dove vivevano loro.
Ti piacque fin dal principio? Allora non potevo neppure immaginarla una relazione con una donna. Se qualcuno mi avesse detto che mi stavo innamorando di Ramona, sarei caduta distesa perché ero assolutamente contraria ad un’idea simile, permeata com’ero di quella mentalità conservatrice, che oggi intendo estirpare completamente.
Alle elementari le suore del collegio, nel quale mi trovavo, a Corrientes , si erano premurate di inculcarmi tutta la loro dottrina di colpa e aberrazione nei confronti dei “sodomiti”, per cui non c’era altra alternativa che quella di sposarsi con un uomo e formare una famiglia “come Dio comanda”.
Ma ti piacevano le donne… In quel momento non ero in grado di capire quello che mi stava succedendo. Mi ricordo che nella mia adolescenza ero infatuata di Doris Day, ma era qualcosa di indefinito. Mi piaceva, ma non riuscivo a spiegarmi cosa provassi e tanto meno a manifestarlo.
E allora, ti sei sposata per continuare a nascondere quello che non potevi spiegare? Mi sposai perché Julio mi piaceva. Ero sufficientemente innamorata e lui mi aveva colpito. Inoltre, il fenomeno Hippy, che si cominciava a vedere nel nostro Paese, consentiva un margine ad una rivoluzione nella quale tutti si lasciavano trascinare.
Se una ragazza aveva 23 o 24 anni ed era ancora vergine, era malvista. Così preferii mettere da parte quello che mi stava succedendo per vivere una vita eterosessuale, come i miei genitori e la società tutta mi avevano inculcato. Poi le cose cambiarono perché io non ero più la stessa e inoltre perché Ramona era riapparsa nella mia vita.
Perché decideste con tuo marito di lasciare l’Argentina per vivere in Columbia? Dovevamo andarcene, erano tempi molto difficili. Io studiavo e militavo attivamente a La Plata e in quel periodo di dittatura era molto difficile fare politica nel Paese. Mi ricordo che in una delle molte manifestazioni che organizzammo all’università, durante la dittatura di Onganìa, la situazione si era fatta pesante e le milizie ci assaltarono con i cani.
Uno di questi mi aveva afferrato per il poncho che indossavo e mi avrebbe quasi sbranato; quel giorno pensai che non sarei riuscita a raccontarlo da viva. Comunque quel periodo non fu così crudele come quello di Videla. Nel marzo del 76 fu ancora peggio e, dopo un anno di accadimenti che non si possono descrivere, ci risolvemmo di andare in esilio in Columbia.
…che non si possono descrivere? Mi è molto difficile parlarne perché mi mette di fronte ad un passato di grande dolore. In sostanza voglio far notare che quello che ci capitò, a me come a molti amici miei, fu terribile e ancora oggi continuo a piangere quei morti. In quel periodo lavoravo come collaboratrice nell’Ospedale Pediatrico e, con l’inizio della dittatura di Videla, il panorama cominciò a farsi caotico e di terrore.
Ogni giorno venivamo a sapere della scomparsa di un compagno e i regolamenti dei conti non mancavano mai; ce la passavamo molto male.
Dovetti andarmene perché non mi restava altro da fare: non avevo altra scelta. Se ci fosse stata la possibilità, indubbiamente sarei rimasta a lottare per il mio Paese, ma mi avevano arrestata e, invece di farmi fuori, mi avevano torturata fino allo sfinimento. Le alternative erano due: o andare in Columbia con mio marito o mi avrebbero ammazzata.
E’ stato difficile l’esilio? Quando scappai dall’Argentina cominciai a vivere nuove esperienze e mi allontanai dalla politica, ma non dimenticai mai il mio passato. Mentre stavo andando in treno verso la Columbia, pensavo a tutto quello che avevo lasciato per strada e provai un dolore che continua ancora.
Alla frontiera con la Bolivia c’era un reticolato che separava quel Paese dal nostro e, quando lo attraversai, sentii che stavo aprendo una nuova porta, senza avere chiusa quella precedente. Oggi, dopo tanto tempo, mi pesa ancora tutto questo.
Ti rendesti conto di essere lesbica quando tornasti a vedere Ramona? La storia ha quasi dell’incredibile, ma mi resi conto che mi piacevano le donne un attimo prima di salire sul treno che mi avrebbe fatto abbandonare il Paese. Credo davvero di essere un po’ ritardata perché arrivo sempre tardi ovunque e soprattutto a rendermi conto di quello che mi stava capitando a livello sessuale (risata). Il fatto è che se non fosse stato per Teresa, non me ne sarei mai resa conto.
Chi è Teresa? Teresa è una vecchia amica di militanza che abitava vicino a me, insieme ad un’altra ragazza che militava essa pure con noi. Lei lo vide prima di ogni altro quale fosse la mia situazione e fu la prima a parlare con me della mia sessualità.
Benché avesse qualche problema e fosse un po’ fuori di testa, era una persona molto speciale e non tardò a diventarmi amica. In quel momento ero sposata con Julio e non esisteva la possibilità di una relazione lesbica, ma Teresa si era accorta che c’era qualcosa dentro di me.
“Basta grattare appena per vedere quello che stai nascondendo” mi insinuava di continuo e io non lo capivo. Per questo, quello che mi disse un momento prima di salire sul treno, cambiò totalmente la mia vita: “Tu mi ami”. Fu allora che mi resi conto di quanto fosse vero quello che stava dicendo: mi piacevano le donne. E soprattutto mi piaceva Teresa.
Vi è dispiaciuto di non aver avuto una relazione con lei? No, Teresa era un’ottima amica, ma era pazza. Mi avrebbe complicato la vita più di quanto già non lo fosse! (risata) Lei significò molto per me e fu lei che mi aiutò a scoprire la mia sessualità e ciò che veramente volevo.
Tuttavia hai deciso di restare con tuo marito… Indubbiamente. Era molto difficile per me parlare di questo. Quando giungemmo in Columbia, andammo ad abitare a Pivijay, il paese di suo cugino, e fu lì che mi ritrovai con Ramona. Diventammo amiche e lei, senza saperlo, mi fu di grande aiuto in tutto questo processo.
Di lì a poco ero già innamorata di Cachita e avevo un grande bisogno di lei, ma me ne stetti zitta perché avevo paura della sua risposta. Dico sempre che i copioni di Alberto Migré non sono nulla in confronto alla nostra pellicola… perché non solo mi ritrovavo innamorata di una donna, ma di una donna sposata con il cugino di mio marito e che aveva un figlio adolescente; quanto bastava a ridurre del tutto le mie possibilità. Ma una notte mi dimenticai di tutto e feci una cosa che cambiò la storia (risata).
Cosa capitò? Eravamo ad una festa di un compaesano e, cosa mai capitata prima, ero completamente ubriaca di rhum. La festa stava finendo e i nostri mariti erano all’ultimo bicchiere, mentre Ramona ed io salivamo in auto per aspettarli e andarcene.
Eravamo una a fianco dell’altra e parlavamo, finché, spinta da un istinto che non so da dove mi venne, mi avvicinai a lei e le morsi l’orecchia, lentamente. Se non fossi stata ubriaca non lo avrei mai fatto.
Fu quella la prima volta che vi abbracciaste? No, quella notte finì tutto lì perché c’erano i nostri mariti. Il giorno dopo non mi ricordavo di nulla e Ramona apparve a casa mia dicendomi che dovevamo parlare.Mi sentii morire perché immaginavo che fosse qualcosa che riguardava quello che mi stava capitando, ma non mi era tornato alla mente quello che avevo fatto. Così passò una settimana, finché un giorno approfittammo del fatto che i nostri mariti erano andati in campagna, per incontrarci.
Quando arrivai da Cachita, lei non esitò ad affrontarmi con la fermezza che la caratterizza: “Me lo avresti fatto anche se tu fossi stata sobria?”, mi domandò ed io risposi di sì, senza sapere di cosa si trattasse. E fu così che stemmo tutta la notte abbracciate e vivemmo la nostra prima esperienza lesbica, a 37 anni.
Cosa fu del tuo matrimonio e di quello di Ramona, dopo quella notte? La mia relazione con Julio continuò finché rimasi vedova. All’inizio quello che ci stava capitando lo prendevamo come un gioco passeggero e non ci veniva in mente di rompere i nostri matrimoni, né di iniziare una relazione.
In seguito Cachita si separò dal marito, il figlio andò con lui a Barranquilla e lei cominciò a vivere in casa nostra. Per me fu molto pesante e durò a lungo, data l’infermità di mio marito. Era alcolizzato, fumava molto e con il tempo si ammalò di cancro alla laringe. Io mi sentivo molto in colpa per quello che capitava e soprattutto per la relazione clandestina che avevo con Cachita.
Ti chiese mai Ramona di lasciare Julio per lei? No, anzi. Lei mi sosteneva e mi aiutava nell’affrontare l’infermità di mio marito perché, nonostante tutto, io continuavo a stare con lui. Mentre Julio era ammalato, passavano tanti mesi senza stare insieme con lei e tutte e due eravamo impegnate a controllare che non bevesse e non fumasse.
Cosa accadde dopo la morte di Julio? A quel punto cominciammo a costruire la nostra relazione, anche se mi fu abbastanza difficile liberarmi dai sensi di colpa, che credo mi stiano perseguitando ancora oggi. Continuammo a vivere insieme nella casa di Pivijay e la gente non fece mai nessun commento in merito.
Ovviamente la maggior parte dei nostri vicini e le loro famiglie sapevano della nostra relazione, ma non ci mancarono mai di rispetto, né ci tolsero il saluto. Credo che lo immaginassero già da prima che morisse mio marito. Inoltre il figlio di Cachita la prese molto bene e mi chiese perfino di essere la testimone delle sue nozze.
Da dodici anni vivete in Argentina. Perché siete tornate?All’inizio affinché Ramona si ritrovasse con suo figlio, che stava studiando qui, e perché io avevo bisogno di ricostruire il mio passato. In effetti il ritorno in Argentina significò una nuova partenza nella mia vita ed oggi voglio mostrarmi di fronte a tutti affinché la mia storia possa contribuire a che la gente non discrimini, né prenda una strada sbagliata come feci io, mossa sempre dal terrore e dal senso di colpa.
IL PRESENTE: RESA DEI CONTI, AMORE E MILITANZA
Per quale motivo vi siete date all’attivismo? Senza dubbio per saldare i conti aperti con il mio Paese. Ancora oggi soffro per aver lasciato l’Argentina, il mio lavoro, i miei amici nel momento nel quale c’era più bisogno di lottare, ma ripeto: non avevo altra scelta.Avrei voluto restare, per ciò mi rattrista molto sentirmi dire: “Cosa avete fatto voi per il Paese, se siete fuggita appena erano cambiate le cose?” Non mi fa bene rivangare di nuovo tutta la storia, ma ora sono qui e devo imparare a confrontarmi con il mio passato per potermi curare le ferite.
E’ per questo che oggi lotto per una Argentina nella quale non ci sia discriminazione per scelte sessuali e affinché i giovani di oggi non debbano nascondersi domani, come ho fatto io.
Come siete arrivate all’istituzione del primo Centro di Pensionati LGTB di Argentina? La decisione nacque quando ero ancora in Columbia. Da parecchio tempo avevo intenzione di cooperare con tutto ciò che è in relazione con le questioni di genere e sesso, così che appena giunsi a Buenos Aires cominciai a lavorare per questo.
Nel Gruppo La Fulana conobbi Maria Rachid e, per mezzo di lei, Graciela (Balestra) e Silvina (Tealdi) del Gruppo Porta Aperta, che affrontavano un tema di grande interesse per me: la condizione degli omosessuali della terza età. Effettivamente avevo una autentica preoccupazione per quei gay che come me erano sui 60. Dove erano? Da che parte stavano? Si erano dissolti?
E dov’erano dunque gli omosessuali sopra i 50? Nascosti, come nella loro gioventù. Ai nostri tempi le parole gay e lesbica erano tabù e molti della nostra generazione erano stati prigionieri di questa logica discriminatoria.
Quale fu la risposta ottenuta? La reazione fu confusa ed esitante. Formammo una commissione direttiva di nove pensionati e fui nominata presidente del Centro. Il problema è che non tutti hanno il coraggio di mostrarsi, per paura della reazione dei propri familiari; molti hanno paura di ammetterlo.
E’ per questo che, nonostante all’inizio si fossero iscritti un numero di persone che andava oltre le nostre aspettative, col tempo smisero di farsi vedere per quella solita logica di auto-censura e di senso di colpa. Ma, come direbbe Ramona, non siamo scarafaggi da volerci nascondere. Per questo noi anziani dobbiamo scrollarci di dosso i tabù.
L’anno scorso, insieme a Ramona, avete fatto l’unione civile. Come è andata? Tutto nacque grazie all’iniziativa di Luis d’Elia, che fu nostro testimone. E’ stato lui a metterci in testa questa idea e ci ha aiutato per poterla realizzare. Qui, a Parque Chas, la risposta fu incredibile e i vicini ci festeggiarono.
Come avete conosciuto Luis d’Elia? Luis lo conobbi dopo alcuni mesi dal nostro arrivo a Buenos Aires. Noi siamo rientrate in Argentina nel 1998, però solo sei anni dopo arrivammo a Parque Chas, perché prima abitavamo nel paese di Goya, Corrientes, dove sono nata. In questo modo ebbi contatti con la gente delle cooperative della Federaciòn Tierra y Vivienda di Boedo e poi, con l’aiuto di Luis, aprimmo un Centro in Parque Chas.
E da allora ci occupiamo con programmi per le abitazioni, con lo scopo di creare spazi degni di sviluppo, crescita e lavoro per tutti. Come molti compagni della cooperativa, posso notare che ci sono presupposti e programmi di autogestione, ma da soli non si arriva a costruire nulla. Pertanto credo che il cooperativismo sia l’unica strada affinché tutti, indipendentemente dal sesso, genere ed età, possano avere un’abitazione dignitosa.
Siete tornate in Argentina per affrontare i conti aperti e molti di quelli sono già stati saldati. Quali altre mete avete in mente? Questa settimana incominciamo a sistemare il patio della nostra casa, perché possa funzionare come un centro culturale aperto a tutti coloro che desiderano farne parte. In effetti è da molto tempo che desideravo occuparmi di questo, ma non ho mai trovato il tempo per farlo. Ora ho messe tutte le mie energie nell’insegnamento della pittura e nel dipingere io stessa, dal momento che non solo mi piace insegnare, ma anche dipingere e riciclare materiali per le mie creazioni.
Ho telai fatti perfino con foglie di pannocchia e tutto quello che trovo in giro lo prendo per l’atelier; prima o poi lo userò (risata). Comunque vorremmo sposarci, perché, anche se siamo molto contente del presente, l’unione civile non ci basta.
Per questo motivo avete presentato un ricorso in appello alla Città di Buenos Aires per potervi sposare. Aspettate a breve una risposta favorevole? Fosse per noi, ci sposeremmo domani, ma ogni cosa richiede il suo tempo. Con Ramona abbiamo presentato la richiesta di matrimonio il giorno che abbiamo stretto l’unione civile e ovviamente ci hanno risposto di no.
Il mese scorso abbiamo compilato di nuovo la richiesta di matrimonio e ce lo hanno di nuovo negato. Per questo abbiamo presentato un ricorso in appello e bisogna attendere che si concludano le vacanze giudiziarie perché si discuta il caso. Credo che ci sarà un esito favorevole, ho puntato tutto su questo. Le cose devono cambiare.
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IL RACCONTO DI CACHITA
Cosa provai quando la mia amica mi morsicò l’orecchio? A dir la verità… una fortissima scossa (risata). Non mi dispiacque, anzi, ma sapevo che non era una cosa di poco conto. A questo proposito non ebbi mai traumi, quello che capitò con Norma avvenne con naturalezza e, quando cominciai a provarci gusto, non mi feci troppe domande. Ad ogni modo avevo dei dubbi su quello che provava lei.
Per questo una notte, quando mi marito andò a trovare sua sorella, la chiamai a casa mia e – pane al pane e vino al vino – misi le cose in chiaro. Quella fu la nostra prima volta e la ricordo ancora.
Conobbi Norma a 28 anni. Eravamo sposate tutte e due. Sinceramente non avevo mai provato il desiderio di stare con una donna e credo che questo sia dovuto agli insegnamenti che mi inculcò la mia famiglia fin dalla mia infanzia, in Uruguay. Di quelle cose non si parlava.
E fu così che mi sposai con un colombiano che aveva un cugino in Argentina e, quando decidemmo di andare a vivere in Columbia, passammo prima per La Plata per fargli visita. Lì c’era lei, ma in quel momento non mi passava per la testa che di quella donna avrei finito per innamorarmi. Né di lei, né di nessun’altra.
Mi sposai per uscire definitivamente di casa, per quanto con il mio ex marito avessimo un buon rapporto e arrivai ad amarlo, furono i maltrattamenti di mia nonna che mi spinsero a farlo. Inoltre a 18 anni mi era stato rivelato un segreto che cambiò tutto: mia madre, in realtà era mia nonna. La mia vera madre era quella che io avevo considerato mi sorella per tutti quegli anni e che io non vedevo mai. Non seppi mai i motivi di quella menzogna, ma non mi interessarono neppure. Appena potei, mi sposai e me ne andai.
Quando arrivò Norma a Pivijay, dopo la sua fuga, le cose andavano bene. Eravamo diventate grandi amiche ed ogni settimana ci radunavamo nella casa di una delle signore del paese per giocare a carte. Niente di fuori dal normale fino a quel giorno nell’auto, quando mi morsicò.
Quello che seguì avvenne tutto di nascosto. Ne passò del tempo prima che si potesse vivere il nostro amore liberamente, ma il sacrificio ne valse pena, così come per tutti quegli anni di relazione clandestina con i sensi di colpa di Norma per il marito infermo. Oggi siamo immensamente felici e, anche se c’è gente che ci guarda in modo strano o che non comprende la nostra relazione – come la mia vera madre – la mia gioia più grande è che mio figlio ci abbia accettate in modo tanto spontaneo.
Oggi i tempi sono diversi. Oggi abbiamo il coraggio sufficiente per non nasconderci e far vedere a tutti che ci amiamo.
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