Gay nella chiesa quale accoglienza?
Articolo tratto da www.korazym.org il 17 gennaio 2007
La notizia di quanto è accaduto in una parrocchia Campana ha fatto il giro d’Italia in un baleno. Infatti il vescovo di Aversa ha imposto ad un parroco di sciogliere un gruppo di preghiera di giovani omosessuali. Una notizia che ha fatto nascere mille discussioni su cosa vuol dire “accogliere l’altro” nella chiesa cattolica.
Mettere al primo posto uno stile di accoglienza, pur affermando con chiarezza valori e principi è difficile, ma necessario. Perché quello di oggi è un momento storico in cui si deve parlare chiaro (“il vostro parlare sia sì, sì e no, no”), senza dimenticare però che la vita e le situazioni interpellano, anche con le loro contraddizioni.
È per questo motivo che quanto accaduto ad Aversa nei giorni scorsi lascia un po’ l’amaro in bocca.
Ma partiamo dai fatti: padre Eduardo Capuano ha 34 anni ed è il parroco della chiesa di San Giorgio Martire di Pascarola, una piccola frazione di Caivano, in provincia di Napoli.
Il religioso aveva promosso da settembre un gruppo di preghiera e di accompagnamento per giovani omosessuali.
Un’iniziativa nata da una precisa richiesta di aiuto dei ragazzi (quattro femmine e due maschi).
“Nel nostro unico incontro, a settembre, abbiamo pregato assieme; – spiega padre Eduardo – si erano avvicinati alla fede, venivano a messa. Mai la loro sessualità è stata al centro dei nostri discorsi, anche perché non ho la competenza per cose del genere”.
Insomma, un’occasione di confronto e di riflessione, respinta tuttavia, dagli altri fedeli che si sono organizzati e hanno chiesto al vescovo di Aversa, mons. Mario Milano, di intervenire. Il presule ha così contattato padre Eduardo, consigliandolo “caldamente” di interrompere lì l’esperienza.
L’obbedienza, si sa, è una promessa e un impegno e il religioso si è visto costretto ad obbedire, anche se a malincuore. Non ho più visto né sentito quei ragazzi; – ha detto al quotidiano La Repubblica – peccato, credo che potesse essere un’esperienza utile. Constato che i tempi per simili esperienze di fede non sono ancora maturi e che in una piccola realtà come la nostra manca la necessaria apertura mentale”.
“Segno – ha commentato con amarezza – che l’omosessualità per i cattolici se non è proprio un tabù, viene ancora gestita come tale”.
Ad Aversa, in particolare, già sei anni fa si erano registrati episodi simili e ancora viene ricordata un’intervista di mons. Milano al Corriere del Mezzogiorno (11 novembre 2004), in cui, ferma restando la “comprensione della Chiesa”, il presule parlava di “fratelli e sorelle affette da patologie”, quando invece è noto che per l’Organizzazione mondiale della sanità e per la medicina in genere, l’omosessualità non è una malattia, ma “una variante del comportamento sessuale umano”.
E attenzione, un presupposto simile non sminuisce assolutamente la posizione morale della Chiesa e la valorizzazione della famiglia fondata dal matrimonio: una affermazione che nasce da una visione positiva della vita, dato che la morale non è un elenco di no, ma un inno di sì alle dimensioni più belle e profonde dell’uomo.
Inoltre, la posizione contro un gruppo di preghiera come quello di Aversa, non c’entra niente neppure con la battaglia sui pacs che i cristiani hanno il diritto di portare avanti con assoluta legittimità. Ma un conto è l’aspetto legislativo su cui è lecito confrontarsi (a partire dal dibattito sulle priorità e le categorie da tutelare); altra cosa è il vissuto del singolo, con la fatica, i limiti e le contraddizioni.
Uno stato di cose valido specie per un omosessuale credente, chiamato a misurarsi e ad accogliere nel bene e nel male la propria storia, a prescindere dalle scelte concrete che farà.
La Chiesa dovrebbe essere presente proprio in questo tratto profondo del cammino, esercitando il suo ruolo di maestra, ma ricordando che molto spesso è più facile parlare al cuore con un atteggiamento materno.
Quello adottato da tanti confessori e guide spirituali, che potrebbe tuttavia esprimersi anche in iniziative pubbliche, proprio come aveva tentato di fare padre Eduardo.
È questa la strada da seguire, anche con altre categorie, a cominciare dai separati e dai divorziati, per far capire che nella Chiesa nessuno è escluso e che nonostante tutto, al di là delle condizioni e degli stati di vita, è la misericordia la meta a cui guardare. Ferma restando la dottrina, siano due braccia aperte la chiave per comunicare.