Io monaco gay. Il celibato senza amore non è celibato
Articolo di Terence Weldon tratto dal blog Queering the Church (Gran Bretagna), del 26 febbraio 2011, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Il frate trappista Matthew Kelty è stato monaco all’abbazia del Gethsemani in Kentucky (Stati uniti) ed è stato l’ultimo confessore di Thomas Merton. Ha fatto il suo coming out all’età di 90 anni.
Vorrei fare una riflessione sul coming out di padre Matthew e sulla sua convinzione che essere gay sia un dono, in particolare nel perseguimento del celibato monastico.
Charles Richard Kelty Jr. nacque a Boston nel 1915. Fu uno studente precoce e a scuola contrasse l’amore per la poesia durato tutta la vita. Studiò al seminario della Società della Parola Divina (SVD) a Techny nell’Illinois e nell’agosto del 1946 venne ordinato sacerdote e prese il nome di Matthew.
1947 al 1951 fu missionario in Papua Nuova Guinea, poi di nuovo in Illinois fino al 1960.
Nel febbraio 1960 venne accettato nella comunità trappista del Gethsemani e nel 1962 assunse i voti di stretta osservanza. Durate il noviziato entrò in contatto con Thomas Merton, che gli fu assegnato come direttore spirituale. Merton aveva fatto dell’espressione creativa una componente importante della sua spiritualità attraverso il ben noto ricorso alla parola scritta, e incoraggiava i nuovi monaci da lui diretti a fare lo stesso.
“Ciò che padre Matthew ricordava della sua prima formazione monastica era il modo in cui Merton incoraggiava i novizi a cercare la loro via di espressione artistica, qualsiasi tipo di espressione, proprio come lui stesso aveva fatto con la parola scritta.
La creatività, spirituale o meno, doveva essere la parola d’ordine al Gethsemani, e anche oggi uno sguardo superficiale al negozio dell’abbazia dimostra quanti monaci abbiano preso sul serio l’invito di Merton alla creatività nel campo della scrittura e delle belle arti.
Padre Matthew Kelty non faceva eccezione, anche se arrivò ad esprimere la sua creatività più tardi degli altri. Come fece Merton, abbandonò per un certo periodo il Gethsemani, con l’intenzione di tornarvi, a differenza di Merton.
Passò tre anni (1970-1973) in una piccola comunità cistercense a Oxford in North Carolina, poi altri nove anni (1973-1982) in Papua Nuova Guinea, da eremita. Poi tornò a casa, al Gethsemani.
Fu lì che fece della sua vita un capolavoro: si volse all’arte dell’omelia domenicale, molte delle quali furono più tardi filmate e messe in rete. Il suo modo di celebrare l’Eucarestia era proprio questo, una celebrazione rituale, un evento teatrale la cui solennità artistica egli ebbe sempre in mente. Queste rimangono tra le sue creazioni artistiche settimanali più commoventi.
Ma padre Matthew Kelty si dedicò anche alla parola scritta. La sua corrispondenza personale ha il respiro di una poesia; qui le parole scoprono una gentilezza che talvolta mancava alle mani meno callose di Merton.
Padre Matthew scrisse anche un libro, ma per ragioni molto meno personali di Merton; ragioni, chiamiamole così, politiche. Il libro è una raccolta di omelie e saggi spirituali intitolata “My Song Is Of Mercy” [Il mio canto è un canto di misericordia] ed edita da Michael Downey nel 1994.”
Fu in una pagina di quella raccolta che padre Matthew uscì allo scoperto, affermando che essere gay è un dono, un dono che lo aveva aiutato nella scelta del celibato. Questo ha delle importanti implicazioni per l’odierno ed esibito orrore dei preti omosessuali, con la sua presunzione che l’identità gay significhi necessariamente una vita sessuale attiva oppure l’identificazione con la paventata “agenda gay” (qualsiasi cosa essa sia).
Ovviamente ambedue sono possibili per alcune persone, ma mai inevitabili. Cosa molto più importante, questa autoidentificazione è un segno di salute e di pienezza che padre Matthew descrive come un “processo di integrazione”:
“Non c’è nessuno con una maggiore vocazione, una maggiore capacità, che sia stato creato apposta per questo processo delle persone che chiamiamo gay, che iniziano dal loro primo giorno il processo di integrazione del quale altri non hanno la minima idea prima dei 40 anni.” (Da “Il dono di essere gay”)
I miei lettori sapranno che mi oppongo strenuamente all’imposizione del celibato obbligatorio come presunta regola universale per tutti i sacerdoti cattolici. Tuttavia sono felice di accettarlo come via liberamente scelta, che per alcuni può avere un valore spirituale.
Sono anche d’accordo con papa Benedetto quando dice che questa ardua disciplina può diventare più agevole in una comunità che ti sostiene, come quella monastica di padre Matthew.
Quello che ho trovato particolarmente interessante nell’argomentazione espressa in “Il dono di essere gay” è che per gli uomini omosessuali il celibato diventa possibile come espressione d’amore; non l’amore carnale, umano, ma l’amore di Dio. Nella tradizione della spiritualità e della mistica cristiana è ben consolidato l’uso di immagini erotiche per esprimere l’amore tra il mistico e Dio.
Quando Dio è raffigurato come la seconda persona della Trinità, l’indubitabilmente maschio Gesù Cristo, per gli uomini che adottano questa approccio alla contemplazione l’immagine che ne risulterà sarà omoerotica, per alcuni in modo più intenso. Questo sarà ovviamente più probabile per gli uomini che si sono identificati come gay che per gli eterosessuali o coloro che cercano di non riconoscere i loro istinti omoerotici.
Ecco perché padre Matthew Kelty concludeva che, per chi vuole rimanere celibe, l’essere gay è un dono che rende questo cammino più semplice che per l’eterosessuale. (Qualcuno dovrebbe andarlo a dire al Vaticano.)
Tuttavia, mentre padre Matthew scriveva specificamente del suo contesto monastico celibatario, l’argomentazione che ne è alla base è valida per tutti noi, anche per chi non prova il bisogno o il desiderio di abbracciare la disciplina spirituale del celibato.
Tutti noi abbiamo bisogno di praticare e sviluppare una vita spirituale (una difesa preziosa contro l’ostilità mal diretta della Chiesa istituzionale). Sia che decidiamo di abbracciare il celibato volontario oppure no, l’uso di immagini omoerotiche come metafore dell’amore tra noi e Dio, e come mezzo per sperimentare quell’amore in maniera diretta nella nostra vita spirituale, ha un valore altissimo.
E coloro che non sono né uomini gay né donne etero? Dunque, nonostante la tradizione veda usualmente Dio come un maschio, questo non è essenziale.
La Trinità può essere più accuratamente pensata come omnisessuata e lo Spirito Santo è specificamente femminile. Scegliete il genere che volete per la vostra personale immagine di Dio, il principio rimane valido. Ecco un lungo estratto dal suo necrologio tratto da Religion Dispatches:
“Il sesso non è un problema. L’amore è un problema.
Il pezzo più sorprendente e uno dei più commoventi di questo volume è l’epilogo, intitolato “Il celibato e il dono di essere gay”. Padre Matthew Kelty decise, in vista del suo novantesimo compleanno, di uscire dal suo riserbo monastico e cercare di descrivere con quali doni i cristiani gay e le cristiane lesbiche potessero contribuire alla complessa tessitura della comunione cristiana.
Fece questo perché sentiva una responsabilità verso i “minimi tra noi” che non avevano imboccato la via dell’accettazione in maniera così agevole come molti tra gli anni ’60 e i ’70 avevano sperato. Ma potete anche cogliervi più di una eco di quanto Matthew imparò dal tormento eterosessuale di Merton.
È comunque vero che, dato il clima che si respira nel nostro Paese, ci vorrà un po’ per lasciare che l’amore agisca.
E poi per lasciarlo crescere più profondo, più grande, più ampio. Vorrei che fosse chiaro: … [questa] è la ragione per cui tanti eterosessuali abbandonano il celibato dopo dieci o vent’anni: non riescono a venirci a patti: hanno bisogno di una donna esterna per risvegliare quella interiore, specialmente nella nostra cultura. Forse si agisce meglio se si è meno divisi…
E, dato che chi tende a preoccuparsi, qui si preoccuperà del sesso, la risposta è semplice: il sesso non è un problema. L’amore è un problema. Dove non c’è amore possiamo vedere il sesso emergere. Tutti gli uomini vogliono amore, anche i celibi.
Il sesso può essere un modo di amare, ma è assurdo dire: senza sesso niente amore, è assurdo come dire che il sesso è amore. Un sacerdozio celibatario, una comunità di celibi sono una grazia per la Chiesa, un canto del Regno (dove non vi sarà il matrimonio ma tutti saranno nella pienezza) e una gioia per chi vi partecipa.
Non c’è nessuno con una maggiore vocazione, una maggiore capacità, che sia stato creato apposta per questo processo delle persone che chiamiamo gay, che iniziano dal loro primo giorno il processo di integrazione del quale altri non hanno la minima idea prima dei 40 anni. Siano benedetti! (Il mio canto è un canto di misericordia)
In breve, ha scritto per gli altri, mai per se stesso. Anche in questa, la più personale delle confessioni spirituali, il soggetto non è affatto padre Matthew: è l’umanità, il mondo, la Chiesa, il suo sconcertante, universale e compassionevole abbraccio della Creazione, della quale si considerava parte indelebile.
Merton fece molte pressioni per ottenere il permesso di vivere leggermente appartato dalla sua comunità, in un piccolo romitorio sulla collina vicina al dormitorio del Gethsemani; che alcuni monaci si risentissero delle sue suppliche speciali e del suo trattamento di favore era inevitabile.
Ma padre Matthew non lo fece mai: invece, attribuì a Merton il merito di aver fatto tornare lui e gli altri monaci ai valori centrali del misticismo e della solitudine. Solo così il monaco può trovare l’amore divino nel quale il celibato acquista un senso.
Curiosamente, tale immagine dell’amore infuso di Dio venne a padre Matthew dalla sua prima esperienza con una motocicletta. “Un giorno tutto andò al proprio posto e io venni montato sulla moto” diceva giocosamente e maliziosamente. “È un buon modo per fare l’amore? Non lo so. So solo che era un modo giusto per me.” L’incontro con la sposa che abbiamo dentro non si ottiene semplicemente chiedendolo.
La sua mano deve essere conquistata; il suo amore deve essere dimostrato. Lo sforzo eroico è dato per scontato… Nondimeno molti la trovano, e queste sono le persone che hanno veramente vissuto. Sono quelle che conoscono Dio e che vedranno il suo volto perché sanno cos’è l’amore. Ricordate l’intuizione centrale che rese possibile la sua vita monastica: “Il sesso non è un problema. L’amore è un problema.”
Questa è probabilmente la sua intuizione più originale, che non dovette a Merton (salvo che come decisivo controesempio) ma fu assolutamente sua. La questione del celibato viene spesso discussa in maniera troppo superficiale, come è ovvio che avvenga quando il lato mistico viene trascurato. Fare questo significa ridurre il celibato a un atto di valore che molto probabilmente finirà per rovinare la persona.
Il celibato, senza un profondo coinvolgimento amoroso, è un disastro. Non è nemmeno celibato, è semplicemente non sposarsi. E al mondo ci sono anche troppe persone del genere, sposate o meno. Il sesso non è un problema. L’amore è un problema. Quindi il celibato è grossolanamente frainteso se lo si immagina come una vita da scapoli senza sesso.
Questo non fa che ribadire l’ossessione per il sesso della nostra epoca. Il celibato è una storia d’amore, una storia d’amore con Dio. Ecco cosa troverete in padre Matthew: un tranquillo, appassionato, a volte schiacciante amore di Dio.
Padre Matthew era infuso di questo amore, che sgorgava da lui in ogni omelia, ogni lettera, ogni sguardo ridente. La sua preghiera più usata era una preghiera per la pace.
Il suo fondamentale orientamento spirituale era diretto a una eterna misericordia, una misericordia che lui cantava come una canzone e viveva come una storia d’amore.
E mentre il cattolicesimo americano continua a ripensare le sue relazioni con Roma e il suo futuro culturale in tempi di crisi, rimane importantissimo per noi ricordare che voci come quella di padre Matthew sono esistite nella Chiesa romana e in altre Chiese. Perché le buone persone ci lasciano ogni giorno, e ogni giorno altre ne arrivano.”
Testo originale: “The Gift of Gay” – The Priest Who Came Out, aged 90!