Il cuore nascosto della religione cristiana
Riflessione di Pietro Citati tratta da “la Repubblica” del 15 novembre 2007
“Quando … soccorriamo l´umiliato e il perseguitato, il nostro è un gesto assoluto: non attende di esser contraccambiato e non desidera nemmeno la gratitudine. Non è una legge, non forma un sistema, né un´istituzione: ogni volta il nostro è un atto d´amore, che avviene caso per caso, e può essere sostituito da un atto d´amore più profondo.( …) Dobbiamo vedere soltanto un uomo davanti ai nostri occhi: un affamato, un assetato, uno straniero, un malato, un carcerato; qualcuno che non abbiamo mai visto e forse non vedremo mai più. Non dobbiamo conoscere altro”.
Nei Vangeli non troviamo mai la parola poveri (in greco penetes): il «povero», nel linguaggio del tempo, è colui che non possiede beni, ma vive col proprio lavoro. Troviamo invece molti mendicanti (ptochoi): coloro che si curvano e si rannicchiano per la paura, coloro che piangono col cuore spezzato, gli affamati, gli assetati, gli umiliati, i perseguitati, i coperti di piaghe, le vedove, gli orfani, gli schiavi, i carcerati.
Così, il cristianesimo antico ama sopratutto, gli ultimi, gli estremi, che vivono sotto ed oltre il limite del nostro mondo. Già nell´Antico Testamento, Dio li protegge, li ascolta e li considera giusti. Nel Vangelo, Gesù li fa entrare, quasi soli, nel Regno dei Cieli.
Di fronte ai mendicanti, stanno i ricchi. Tutti conoscono la frase di Gesù: «Amen, vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello [o una gomena] passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
Dovremmo dunque credere che Gesù condanni la ricchezza come un male supremo. Ma le sue parole sono più complicate. Gesù non disapprova che qualcuno possegga una casa splendida, o dei campi a perdita d´occhio, o delle vesti di lino e di porpora.
Nella ricchezza, c´è un pericolo assai più grave. Come dice Luca, i ricchi hanno la loro consolazione: cioè il loro mondo è pieno di oggetti, di cibi, di libri, di quadri, di vestiti, di pensieri, di sentimenti, di riso, di soddisfazione; e forma qualcosa di così compatto e impenetrabile, che non vi si può insinuare nemmeno un´idea o un sospetto o un dubbio
che scenda dal cielo. Ai suoi mendicanti, Gesù si rivolge in due modi. Luca dice: «Beati voi, poveri [mendicanti], perché vostro è il regno di Dio». E Matteo: «Beati i poveri [mendicanti] di spirito, perché di essi è il regno dei cieli». La seconda frase, che non ha equivalenti in tutto il Vangelo (ma un parallelo nei testi di Qumran), è forse la frase più famosa del Nuovo Testamento.
Per essere poveri di spirito, dobbiamo vagabondare, tendere la mano, pregare, essere gli ultimi della terra; e insieme rendere vuota la nostra mente, liberandola da qualsiasi saggezza umana, in modo che la grazia divina possa riempirla interamente di sé.
Gesù ha commentato queste parole in un altro passo di Matteo, dove elogia il Padre perché ha nascosto le cose segrete «ai sapienti e agli assennati» e le ha rivelate «ai piccoli».
I piccoli sono appunto i poveri di spirito: anch´essi ignorano la saggezza umana e ricevono in cambio la rivelazione celeste, sconosciuta ai sapienti.
La rivelazione celeste non è gremita di leggi, sentenze, filosofie, sistemi, come la cultura terrena. «Venite a me – aggiunge Gesù – voi tutti che siete affaticati e gravati, ed io vi ristorerò. Prendete su di Voi il mio giogo, e imparate da me, perché io sono mite e umile di cuore. E troverete ristoro per le vostre anime. Poiché il mio giogo è dolce e il mio peso è leggero».
Sono le parole che più mi commuovono nei Vangeli: Gesù, che portava agli uomini una religione terribile, fondata sulla crocefissione, ci ricorda che, malgrado quanto ci sconvolge nel suo messaggio, il suo giogo è dolce e il suo peso è leggero.
Se i mendicanti e i piccoli sono il cuore nascosto del Cristianesimo, i membri della Chiesa devono coltivare la carità come virtù suprema: più grande, dice Paolo, persino della fede e della speranza.
Quando versiamo il dono nella mano tesa o soccorriamo l´umiliato e il perseguitato, il nostro è un gesto assoluto: non attende di esser contraccambiato e non desidera nemmeno la gratitudine. Non è una legge, non forma un sistema, né un´istituzione: ogni volta il nostro è un atto d´amore, che avviene caso per caso, e può essere sostituito da un atto d´amore più profondo.
Quando Gesù mangia a Betania, una donna gli cosparge il capo con un unguento prezioso. Alcuni discepoli (tra cui Giuda) protestano: «Perché sprecate così l´unguento? Potevamo venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri».
Gesù si irrita e risponde: «Lasciate in pace quella donna. Perché la molestate? Ha compiuto un´opera buona su di me. Avrete sempre i poveri accanto a voi, mentre me non mi avrete sempre. Quando ha versato l´unguento sul mio capo, mi ha preparato per la sepoltura».
Una goccia d´unguento sul capo del Salvatore – qualcosa che non serve a nulla – è infinitamente più preziosa di migliaia di opere di carità.
Alla fine dei tempi, il giorno del Giudizio finale, Cristo sederà sul trono della gloria, disponendo i giusti alla propria destra. «Quindi dirà loro: "Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi sino dalla fondazione del mondo. Perché ero affamato e mi avete dato da mangiare, ero assetato e mi avete dato da bere. Ero forestiero e mi avete alloggiato, nudo e mi avete vestito. Ero infermo, e mi avete visitato. Ero in carcere e siete venuti a me".
Allora i giusti risponderanno dicendo: "Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato, e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo alloggiato, o nudo, e ti abbiamo vestito? Quando ti abbiamo visto infermo o in carcere e siamo venuti a te?". E Gesù rispondendo dirà loro: "Amen, vi dico. Quanto avete fatto a uno dei più piccoli tra questi miei fratelli, l´avete fatto a me"».
Quando diamo l´elemosina, dice Matteo, dobbiamo vedere soltanto un uomo davanti ai nostri occhi: un affamato, un assetato, uno straniero, un malato, un carcerato; qualcuno che non abbiamo mai visto e forse non vedremo mai più.
Non dobbiamo conoscere altro: né pensare a leggi e a simboli; il nostro è soltanto un gesto rivolto a chi è curvo e tende la mano. Passerà molto tempo. Solo un giorno lontanissimo, quando tutti i tempi saranno consunti, sapremo che ci siamo sbagliati.
Quei volti erano sempre lo stesso volto: l´affamato era Cristo, l´assetato Cristo, il malato Cristo, il carcerato Cristo, il quale si era nascosto e moltiplicato nel corso della nostra esistenza.
Col secondo e il terzo secolo, ptochos (mendicante) cadde in discredito e quasi scomparve. Qualcuno si prese gioco di questa parola, che oggi riconosciamo nella forma miserabile di «pitocco».
Ma la chiesa cristiana non abbandonò mai il simbolo del mendicante. Essa abitava in questo mondo, come diceva Giovanni: dove si concentrano il potere, la ricchezza, il lavoro, la conoscenza, la saggezza, il bene e il male – mondo di cui essa stessa faceva parte.
Nel profondo, la chiesa cristiana non amava il mondo. Così vide nella figura del mendicante il luogo della mancanza, dalla quale, come diceva Platone, nasce l´amore. Il mendicante era una specie di lacuna nella realtà: uno strettissimo foro, attraverso il quale possiamo scorgere il passo leggero di Cristo e il volo incontenibile della grazia.
Sino alla fine del diciannovesimo e in parte nel ventesimo secolo, lo spirito cristiano venne dominato dal simbolo del mendicante, assai più che da quello del lavoratore.
Esisteva la civiltà contadina. I più vecchi tra noi ricordano i «barboni» e le «leggere» che attraversavano il Piemonte o la Toscana o le Marche, passando di fattoria in fattoria. Non avevano una casa: indossavano vesti stracciate. Spesso non desideravano lavorare, giacché il lavoro non è l´unica virtù di questa terra.
Quando giungevano in una fattoria, di solito erano benvenuti: restavano qualche giorno, a volte recitando la Divina Commedia od il Tasso: il fattore affidava loro qualche piccolo compito: la massaia regalava la polenta o il piatto di minestra o il bicchiere di latte; e per dormire c´era sempre un pagliaio. Senza rendersene conto, i contadini sapevano che il loro ospite incarnava un antico simbolo cristiano, che dovevano rispettare.
Oggi, tutto è cambiato. La civiltà contadina è quasi morta: non c´è più la mano tesa, la polenta, il pagliaio, il dono di un vecchio vestito. Eppure i mendicanti esistono ancora: anzi, ne esistono, probabilmente, più che nel secolo scorso, sebbene la loro figura non sia più consacrata da un simbolo.
La civiltà moderna è ardua: esige, ed esigerà sempre, complicate specializzazioni; e molti non riescono ad integrarsi, usando il computer, o esplorando Internet, o lavorando con strumenti che mutano ogni giorno. Così, ogni giorno, a Roma, la Comunità di sant´Egidio e la Caritas danno cibo a migliaia di mendicanti, che non percorrono più la terra.
Confesso di praticare ancora l´elemosina, perché così, molti anni fa, mi è stato insegnato; e non mi preoccupo se chi tende la mano è un vero o un falso mendicante.
Ma ogni volta che lascio qualche moneta nella mano di uno di loro o di una zingara, sento su di me uno sguardo severissimo, che mi fissa con sovrano disprezzo.
Di solito, è una signora sessantenne, che porta un doppio visone, mentre nel cielo azzurro-dorato di Roma il termometro segna almeno ventidue gradi. Sono passato di moda. Non importa. Malgrado le signore col visone, conserverò le mie abitudini.