La teologia femminista. La sfida delle donne alla teologia
Intervista di Innocenzo al teologo Gianluigi Gugliermetto, volontario del Progetto Gionata
Se chiedessimo a tanti cristiani che frequentano le nostre chiese se sanno cos’è la teologia femminista, siamo sicuri che avremmo ben poche risposte. Eppure la teologia femminista ha il merito di aver portato una ventata d’aria fresca nella ricerca teologica e di essersi occupata, in maniera nuova, di numerosi temi scomodi come la sessualità e, di riflesso, anche dell’omosessualità.
Scrive Elizabeth Green, nel suo libro Teologia femminista (Claudiana, 1998), che “possiamo paragonare la teologia femminista e la realtà che rappresenta al vino nuovo della parabola di Gesù. Il vino nuovo, ci ricorderemo, ha avuto bisogno di otri nuovi. Spesso siamo così attaccati/e agli otri vecchi, familiari, consumati, che non li vogliamo sostituire. Dire Dio in modo diverso talvolta ci spiazza, ci fa sentire insicuri/e”.
Ma per scoprire qualcosa di più sulla ‘teologia femminista’ chiediamo l’aiuto di Gianluigi Gugliermetto, docente di Teologia presso l’European Institute of Christian Studies di Firenze, e curatore con Gabriella Lettini dell’edizione italiana del Dizionario di teologie femministe di M. Russell e J. Shannon Clarkson, edito recentemente dalla Claudiana.
Potresti spiegarci come nasce la teologia femminista e quali sono i temi ‘nuovi’ che ha portato all’attenzione della riflessione teologica?
Negli anni ’50 e inizi ’60 le pochissime donne che si occupavano di teologia a livello professionale, specialmente negli Stati Uniti, cominciarono a farsi domande su quelle che oggi chiamiamo questioni di genere, cioè smisero di rispondere alle domande astratte della teologia classica per cominciare a farsi domande sulla propria identità di donne in luoghi quasi del tutto maschili quali le facoltà di teologia, sull’immagine della donna che veniva comunicata dai testi sacri e dalla teologia (e se essa coincidesse con la realtà), sul ruolo delle donne nella storia del cristianesimo e nelle chiese attuali. Nei decenni successivi la vera e propria esplosione della teologia femminista ha portato all’esplorazione di molti temi nuovi e inconsueti, ma soprattutto alla revisione di ogni singolo tema della teologia classica da un punto di vista che denunciava l’oppressione delle donne nella società e nella chiesa. È diventato un classico, per esempio, l’articolo di Valerie Saiving del 1960 nel quale l’autrice sosteneva che per le donne non si può parlare, come per gli uomini, dell’orgoglio come matrice del peccato, perché le donne non hanno mai occasione di mostrare alcun orgoglio di sé nella società patriarcale; le donne piuttosto, concludeva Saiving, peccano nel nascondersi e nel rifugiarsi nell’ambito della famiglia.
Le teologhe femministe poi si sono chieste se una redenzione portata da un uomo e modellata sull’esperienza maschile possa davvero redimere le donne (Ruether), perché le donne che seguivano Gesù e la loro esperienza sono scomparse dalla visione tradizionale del cristianesimo (Schlüsser-Fiorenza), se la radice del male nell’essere umano sia veramente da ascrivere al peccato originale e non piuttosto alla violenza patriarcale (Suchocki), se la realtà del divino sia nominata propriamente con nomi maschili quali “Padre” e “Figlio” (Johnson), se la crisi ecologica globale non sia da collegare alla violenza del patriarcato contro le donne e le categorie “deboli” degli uomini (McFague).
Attraverso la revisione femminista di questi come di tutti gli altri temi classici della teologia si è giunti presto a far emergere dei temi trasversali a tutti gli altri, in particolare la corporeità, la sessualità e la relazionalità, tutte valutate positivamente. Negli Stati Uniti poi questa revisione teologica è stata molto profonda, ma si è poi dovuta confrontare anche con la critica da parte delle donne nere americane e delle donne di lingua spagnola, le quali hanno notato come la teologia femminista fosse prevalentemente “bianca” e si riferisse a temi ed esperienze proprie delle donne della classe media.
Certo il rapporto tra le chiese cristiane e le esponenti della teologia femminista non è stato davvero facile, tanto che la loro riflessione è stata definita come ‘teologia indecente’. Come mai?
Il termine “teologia indecente” è stato coniato dalla teologa femminista Marcella Althaus-Reid come un atto di sfida alle teologie che vogliono mantenere una facciata di decenza, e con ciò contravvengono fondamentalmente al mandato rivoluzionario che lo Spirito Santo affida alle chiese. L’aggettivo “indecente” si riferisce in particolare alla sessualità, che le chiese tradizionalmente hanno relegato ai margini di ciò che è decente e può venire solo parzialmente santificato dal matrimonio. Althaus-Reid parte dall’esperienza della teologia della liberazione e ne incorpora gli scopi fondamentali, ma la critica anche per la sua indifferenza nei confronti dei temi legati alla sessualità. Per Althaus-Reid la sessualità non può essere esclusa perché è proprio attraverso la sessualità e la sua perversione a scopi di potere che le persone sono oppresse.
Questo vale anche per le classi “inferiori” della società, e una teologia che voglia davvero offrire un servizio di liberazione ai poveri non dovrebbe escluderla dalla sua considerazione.
La vera perversione del sesso non è l’omosessualità, per esempio, che è solo una variante dell’espressione umana, ma il suo uso a fini di controllo sociale. Se noi continuamo a reprimere le sfaccettature della nostra personalità, incluse quelle erotiche, non facciamo altro che rafforzare le nostre strutture psichiche inconscie che autorizzano o perlomeno tollerano l’uso della tortura, la presenza della violenza domestica, e ogni altra forma di abuso contro i corpi degli esseri umani più deboli. Non è un caso che Althaus-Reid abbia voluto usare il termine “teologia indecente”, sapendo che le teologie che sorreggono i sistemi di potere ecclesiastico non possono nemmeno tollerare di discutere di siffatti argomenti ma preferiscono definire le proprie posizioni come indiscutibili. Non è vero però che tutte le chiese abbiano escluso la teologia femminista o l’abbiano sempre considerata indecente. Molte teologhe femministe negli Stati Uniti hanno ricoperto e ricoprono incarichi di tutto rispetto sia nelle facoltà teologiche sia nelle chiese come pastore e sovraintendenti/vescove.
Quale contributo credi può offrire la teologia femminista al cammino di fede di ogni cristiano?
Secondo me la scossa provocata dalle teologie femministe è paragonabile a quella della Riforma e del Concilio Vaticano II, anzi talvolta penso che sia ancora più profonda di entrambe. La sfida di pensare a fondo le ragioni che hanno portato il pensiero occidentale (quello religioso, ma non solo) a un’antropologia che dà sommo valore alla mente e all’anima, ma poco alla corporeità, è enorme sia per la teologia sia per la filosofia. Lo stesso vale per la sfida di indagare a fondo le dinamiche dell’oppressione che seguono linee, solo apparentemente invisibili, legate al genere e alla sessualità. In fondo le due sfide sono legate e si coniugano nella denuncia della teologia della violenza commessa da questa società nei confronti della Terra e di tutti i suoi abitanti. Abbiamo messo a rischio la stessa sopravvivenza dell’ambiente che permette la vita. Non è questa una follia che riguarda tutti, e che dovrebbe proccupare moltissimo ogni credente nel Dio Creatore della vita?
La teologia femminista invita tutti e tutte a rivedere le priorità della propria vita e della propria fede, e lo fa a partire dalla consapevolezza delle dinamiche del proprio corpo e delle emozioni che lo attraversano, invitandoci a conoscerle, a rispettarle, e ad ascoltare i messaggi che ci mandano sulla nostra relazione profonda con gli altri esseri umani e con tutte le altre creature.
* Gianluigi Gugliermetto, teologo anglicano e docente di Teologia presso l’European Institute of Christian Studies di Firenze, è co-curatore dell’edizione italiana del Dizionario di Teologie Femministe (Claudiana, 2010)