L’attesa dell’uomo e il silenzio del Vescovo
Testimonianza di Roberto
Nei mesi scorsi Roberto, un credente omosessuale, ci scriveva esprimendoci la felicità di aver incontrato il “suo vescovo”, di avergli raccontato cosa significa essere parte di una chiesa cattolica che a volte non sa e non vuole ascoltare, che condanna chi dovrebbe accogliere… Nelle chiuse stanze del Vescovado sono state scambiate parole di rispetto reciproco e l'intenzione di approfondire questo tema. Ma tutto è durato lo spazio di un mattino. Il Vescovo ha preferito, come spesso accade, il silenzio che aiuta la carriera.
Carissimo Mons.,
spesso si parla dell’uomo come di chi è sempre in attesa. Nei secoli, anche tra i pagani, l’uomo era in attesa di una possibile e auspicata rivelazione, di una Parola che portasse luce nelle tenebre dell’uomo e del mondo. Questa Parola, in un momento storico e in un luogo preciso, come ben sappiamo, si è manifestata come rivelatore di un Padre misericordioso che ama, accoglie e redime.
Con la festività di Cristo Re si è concluso l’anno liturgico e fra poco celebreremo questo Avvenimento nel mistero del Santo Natale come la continua speranza per il cuore dell’uomo che avverte e sperimenta il bisogno di essere voluto, accolto e amato.
Ho letto che Lei è stato in pellegrinaggio in Terra Santa, luoghi a noi cari, luoghi dove si è compiuta l’attesa del popolo d’Israele e, quindi, di tutta l’umanità.
Anche oggi ogni persona esprime in vari modi e con varia coscienza questo bisogno primordiale e corrispondente all’uomo: il bisogno di amare e, insieme, di chiedere e capire. Ognuno di noi è in continuo cammino, sempre in ricerca e sempre in attesa di una parola come risposta a domande che urgono.
Ho appena finito di leggere il libro “una vita con Karol” del card. Dziwisz e a pag. 178 parla della necessità di “ripensare certe rigidezze biologico-corporee”. Mi sono chiesto cosa voglia dire perché non mi sembra chiarissimo.
Io non mi stanco, né mi stancherò mai, di indagare, chiedere e confrontarmi partendo dalla mia esperienza cristiana e umana, perché proprio nel mistero dell’Incarnazione Gesù Cristo ha purificato e redento ogni aspetto dell’umana esistenza.
Gesù, apparendo a S. Pietro l’invitava a mangiare ciò che comunemente si riteneva impuro. Non sono in contraddizione nell’uomo la sua dimensione spirituale e quella carnale, non c’è separazione, tutto è stato redento.
E’ confortante, leggendo il vangelo, vedere in Gesù l’ardente desiderio di incontrare tutti, particolarmente coloro che nella mentalità farisaica erano ai margini, gli esclusi; essi ritenevano che Gesù fosse venuto solo per gli eletti, gli ebrei. Invece vediamo che spesso le più belle espressioni di fede le troviamo proprio fra questi e fra gli stessi pagani.
A volte mi domando se io sono fra gli eletti, gli inseriti o fra gli esclusi. E’ significativo, a tale proposito, guardare la bella e drammatica esperienza personale di Charles Peguy che si proclamava tra quelli che sono “sulla soglia”.
Egli, dopo un tormentato cammino di conversione, si sentiva profondamente cristiano, ma essendo sposato civilmente, non potè battezzare i suoi figli. Non poteva accostarsi ai sacramenti né partecipare in piena comunione alla vita della Chiesa, eppure l’allora card. Ratzinger disse, riferendosi a lui, che: “non si era mai parlato così cristiano”.
Siamo “homo viator”, in cammino verso la salvezza e in un percorso di comprensione di una realtà non sempre perfettamente decifrabile. Per questo è importante incontrarsi, paragonarsi, ascoltare.
L’aver letto, caro mons., quel suo articolo su l’Avvenire è stato per me un puro dono, come un dono la corrispondenza che ne è seguita e, soprattutto, quella bellissima udienza del 13 agosto.
Dopo, mentre venivo accompagnato all’uscita, il suo segretario mi chiese come era andato l’incontro, io risposi: “sono contentissimo” perché il mio cuore era più in pace. Lo ero allora e ancora oggi lo ritengo tale.
Ad di là di ogni possibile e auspicato sviluppo, resta il fatto dell’incontro come espressione di paternità e accoglienza, gesto non usuale e da più parti richiesto. In un suo bigliettino, augurandosi un incontro personale, diceva che sarebbe stato utile per Lei e non disutile per me. Le posso dire che per me è stato utilissimo nonché ardentemente desiderato. Spesso mi trovo a confrontarmi con amici i quali non credono in questo mio modo di approcciarmi.
Prima ancora della mia condizione personale, io non posso non riconoscere ciò che l’incontro con l’esperienza cristiana mi ha fatto comprendere: non può esistere cristianesimo senza la realtà storica che è la Chiesa. Una oggettività come espressione visibile di Gesù Cristo. Nello stesso momento però sono convinto che, essendo la Chiesa una realtà vivente, questa deve continuamente approfondire il messaggio evangelico alla luce di aspetti che di volta in volta emergono nel suo cammino.
Pensiamo per esempio all’attuale riflessione sulla manipolazione genetica, l’eutanasia; come la Chiesa ha dovuto confrontarsi nel suo percorso storico sulla schiavitù, sulla pena di morte, sull’inculturazione della fede, ultimamente sul limbo, ed ora anche su come esercitare il mandato petrino. Sono solo alcuni esempi che indicano un perenne dibattito nell’affrontare aspetti non fissati né previsti sia nei vangeli che dai padri della Chiesa.
Mi creda, caro mons., se non fossi fiducioso che prima o poi la Chiesa possa affrontare in una attenta e serena valutazione simile problematica e, di conseguenza, riformulare nuovi giudizi, io mi sarei fatto circa 900 km per un incontro, certamente bello ma fine a se stesso?
Mi sono anche chiesto cosa ha pensato del mio incontro e delle mie riflessioni, quale utilità per Lei? Io liberamente e serenamente ho affrontato i vari argomenti non con ragionamenti astratti ma partendo dalla mia esperienza. Il suo è stato un accogliere e mettersi in posizione di ascolto diretto – ho notato con piacere che prendeva appunti – e mi chiedo: cosa ha significato per Lei?
E’ cambiato qualcosa nella comprensione di un fenomeno penso non completamente conosciuto, e quale giudizi ne ha tratto? Mi confortò ancora sapere che il nostro dialogo sarebbe continuato per posta.
Si può dire che ogni giorno ho guardato con trepidazione nella cassetta della posta, sempre in attesa di una sua risposta, di una sua parola. Ho atteso.
Ho atteso un tempo sufficientemente ragionevole (fra poco quattro mesi) per temere che forse Lei non continuerà il nostro dialogo iniziato, e questo mi dispiace. Comprendo molto bene che le mie domande e i miei quesiti non sono di facile soluzione e forse l’ho messa in difficoltà.
Ma a chi chiedere? A chi raccontare? Da chi attendere?
Lei scrisse una lettera “cari fratelli…”, io ho bisogno di sentirmi dire questo. Io non sono venuto da Lei rivendicando equiparazioni, matrimoni, adozioni, di avallare progetti di legge.
Per me tutto questo è relativo, io Le ho parlato di un’altra esigenza ancora più sentita: essere accolto e compreso nella mia dimensione, comune a tanti altri.
Le ho raccontato come avrei desiderato crearmi una famiglia, avere dei figli, cosa di cui ne soffro ancora, per questo mi addolora quando ancora si vuol far passare l’omosessuale come colui che fa una scelta di vita. Un omosessuale non cambia genere (gender) – ultimo dibattito in atto -, resta sempre maschio o femmina, come dice la Bibbia, ma agisce solo “in conseguenza” col suo essere.
La Chiesa quando parla dell’uomo lo vede sempre come una unità, corpo e spirito e naturalmente la sua psiche. Mi sorprende che, quando si parla di comportamento sessuale, l’uomo sia visto disunito, solo nella sua dimensione corporale. Cioè un maschio e una femmina “debbano” comportarsi quasi come un meccanismo, senza tener conto di tutte le sue componenti.
Perché non prendere in considerazione questo tutt’uno dell’uomo? Io non so se si è omosessuali per fattori genetici, predisposizioni ereditarie, aspetti ambientali e culturali, carenze affettive ed educative – penso che incidano concause – ma di una cosa sono certo, perché vissuto in prima persona; io sono stato sempre così e da piccolo, nonostante tutti i miei tentativi, naturalmente falliti, prima rifiutando la realtà, poi combattendo per poterla “correggere”.
Grazie dell’attenzione e cari auguri di un Santo Natale e che Cristo ci doni gioia e pace.
Salerno, 26 novembre 2007