Io sono Sophia. La mia vita da transgender
Testimonianza di Sophia Banks resa a Caroline Youdan e pubblicata sul sito del mensile Toronto Life (Canada), liberamente tradotta da Giacomo Tessaro
I miei genitori divorziarono quando avevo due anni. Sono cresciuta nel quartiere di Roncesvalles con mia madre e i miei nonni. Quando avevo cinque o sei anni ero solita intrufolarmi in camera di mia nonna per provarmi i suoi vestiti e fantasticare di essere una bella donna di nome Jasmine o Justine. Soffrivo ogni volta che qualcuno mi chiamava con il mio nome, Daryl.
A undici anni mi sono trasferito nella cittadina di Pickering con mio padre e la sua seconda moglie. Anni dopo, durante l’adolescenza, rimanevo sveglio la notte per fantasticare di vivere nel ponte ologrammi – un luogo di realtà virtuale – su un’astronave di Star Treck: era l’unico posto in cui pensavo potessi essere una ragazza senza che nessuno avesse a ridire.
La mia adolescenza è stata un vortice di depressione e odio per me stessa. Abbandonai il liceo all’ultimo anno e passai gli anni seguenti lavorando come lavapiatti e commessa, lottando per sopprimere le mie esigenze femminili. Scoprii di avere la passione per la fotografia e aprii una piccola attività specializzata in album di matrimonio. Ero determinata a vivere come un uomo ma mi veniva un attacco di panico non appena pensavo al mio aspetto: l’ampiezza delle mie spalle, la forma della mia mandibola, il mio petto peloso. Mi aiutava la droga. Ogni volta che sentivo un groppo d’ansia mi fumavo uno spinello fino a stare meglio.
Verso i 30 anni mi ero costruito quella che sembrava una vita perfetta: avevo la mia attività, un bell’appartamento, una bella fidanzata. Ma non stavo bene nella mia pelle. Quando la tensione diventava insopportabile, tornavo a casa dal lavoro e indossavo un vestito da donna. Provavo un immediato sollievo, seguito da ondate di vergogna e disgusto. L’agonia era ciclica: ogni tot settimane gettavo via quei vestiti e facevo voto di smettere: poi, quel fortissimo desiderio tornava.
Nel 2011 io e la mia fidanzata andammo a vivere insieme. Ero stato sincero con lei sull’intera faccenda, ma ci amavamo e speravamo che la nostra relazione potesse funzionare. Poche settimane dopo aver firmato il contratto del nostro nuovo appartamento, mio nonno morì. Mentre spargevo le sue ceneri insieme agli altri famigliari mi balenò in mente una cosa terribile: un giorno sarei morta e nessuno avrebbe mai saputo che ero una donna. Tre mesi dopo mi unii a un gruppo di sostegno per la disforia di genere. Fu dura per la mia fidanzata: si sentiva una donna eterosessuale e mi amava in quanto uomo. Nel novembre 2012 feci il mio pubblico coming out come trans. Ci separammo tre settimane dopo.
Il primo medico a cui mi rivolsi diceva di non credere alle persone trans. Ci vollero cinque mesi per trovare un endocrinologo che mi prescrivesse gli estrogeni e mi bloccasse il testosterone. Non potevo permettermi l’elettrolisi né un guardaroba decente, così compravo vestiti di seconda mano e andavo sempre in giro con un velo di barba. Molti mi trattavano con aperta ostilità, a volte con violenza. Una volta, mentre stavo andando in bicicletta in centro, un uomo mi aggredì e mi gettò a terra. Anche la mia famiglia stentava ad accettarmi: mio padre non riusciva a capire perché sentissi il bisogno di cambiare nome e vivere come una donna: “Ma non puoi limitarti a vestirti da donna in privato?”.
La mia attività andò in pezzi da un giorno all’altro: alcuni clienti annullarono i loro contratti senza cerimonie, altri pretendevano che mi presentassi al loro matrimonio vestita da uomo. Nel giro di qualche mese il mio giro d’affari si ridusse dell’80%. Cercai un altro lavoro, ma ovunque trovavo insulti e rifiuti. A un colloquio per un posto da cuoca il padrone mi chiese senza giri di parole se avessi il pene o la vagina. Era orrendo, ma non potevo permettermi di mandarlo a fare in culo. Ottenni il posto, ma i miei colleghi mi fissavano e facevano battute sui miei genitali. In breve tempo abbandonai il lavoro. Cominciai a riscuotere dei sussidi ma non abbastanza da pagarmi gli ormoni. Provai a prostituirmi. I gentiluomini che incontravo mi chiamavano “shemale” e “tranny” [appellativi usati nell’industria pornografica n.d.t.] e dopo ogni rapporto mi sentivo sempre più umiliata.
Questo era un anno e mezzo fa. Da allora le cose sono migliorate, ma la mia vita non è facile. È evidente che sono trans e questo influirà sempre sul modo in cui la gente interagisce con me. La mia famiglia si sta finalmente sforzando, ma tendono a dimenticarsene e a chiamarmi Daryl. L’unico lavoro che posso rimediare è il turno di notte in un bar queer per 400 dollari alla settimana, mance comprese. Mi piacerebbe farmi il seno ma l’intervento non è coperto dall’assicurazione e non ho a disposizione 7.000 dollari. Vorrei sottopormi anche alla orchiectomia (l’intervento per rimuovere i testicoli, così da non dover più assumere i bloccanti del testosterone), ma c’è una lista d’attesa di due anni solo per avere un consulto. Le altre forme di riassegnazione chirurgica del sesso non mi interessano: chi lo dice che una donna non può avere il pene?
Ho perso la fiducia di poter mai trovare l’amore con un uomo o una donna (sono bisessuale). C’è tanta gente disposta a venire a letto con me in privato, ma a nessuno interessa portarmi fuori a cena. Voglio un lavoro che mi soddisfi e un/a partner che mi tenga la mano in pubblico. Poi voglio andare a vivere in un posto tranquillo e avere una famiglia. Sono stanca di lottare.
Testo originale: My Trans Life: Sophia Banks