Nel cuore di Mary. Una madre cristiana di fronte all’omosessualità di suo figlio
Articolo di Robert Bernstein tratto dal sito della PFLAG* di Washington (Stati Uniti), liberamente tradotto da Marta
La storia di Mary Griffith rispecchia forse la tragedia umana più grande. Mary si incolpa della morte del figlio. Mary racconta che Bobby era “gentile ed educato, amava il divertimento“. Era bello, aveva lineamenti ben delineati e un corpo da Adone perfezionato dal sollevamento pesi. Amava i vecchi film, particolarmente ‘Quando la Moglie è in Vacanza‘, con la sua attrice preferita, Marilyn Monroe. Amava il cibo italiano e amava incontrare altre persone (ndr di lato una sua foto con sua madre Mary). Ma il diario che ha tenuto negli ultimi 2 anni della sua vita rivela un’anima tormentata.
Tormentata da passioni che, così gli era stato insegnato, erano peccaminose. Tormentata dalla schiavitù di quelle che lui chiamava “le regole della società“. Tormentata dalla paura dell’inferno. “I Gay sono dannosi”, ha scritto, “e Dio manda le persone dannose all’Inferno… Credo di non essere una brava persona per nessuno, neanche per Dio. Vorrei sparire dalla faccia di questa terra.”.
La famiglia Griffith frequentava la Chiesa Presbiteriana di Walnut Creek, in California. Lì ricorda Mary, i sacerdoti e la congregazione erano molto chiari nel definire gli omosessuali malati, perversi e condannati all’eterna dannazione. “E quando lo dicevano“, ricorda Mary, “io rispondevo ‘Amen‘”. Quanto a lei, Mary sapeva solo che l’omosessualità era “un abominio nei confronti di Dio”.
E anche prima di venire a conoscenza dell’omosessualità di Bobby, gli aveva comunicato questo sentimento in modo molto chiaro. Ricorda con tristezza un incidente accorso quando Bobby aveva 14 anni. Lui l’aveva presentata ad una sua amica, una giovane ragazza. Per qualche motivo, Mary aveva prestato una giacca alla ragazza. Quando Mary venne a sapere che la ragazza aveva avuto un’esperienza lesbica, non si sentì più in grado di indossare quella giacca. “Non puoi amare Dio ed essere gay“, disse a Bobby. Più o meno nello stesso periodo, Bobby rivelò al fratello di essere gay. Due anni più tardi il fratello lo disse ai genitori.
Quella notte, la famiglia rimase in piedi fino alle 4 di mattina, a parlare e a piangere. Erano tutti d’accordo nel ritenere Bobby un peccatore, nel credere che avesse bisogno di essere curato con preghiere e con l’aiuto di una consulenza psicologica di ispirazione cristiana. Mary gli disse che avrebbe dovuto pentirsi, o Dio l’avrebbe “condannato all’inferno e alla punizione eterna“.
Credeva che Dio sarebbe venuto in soccorso di Bobby, ma soltanto se lui avesse letto la Bibbia. Il consulente cristiano raccomandò a Bobby di pregare e gli consigliò di passare più tempo con suo padre. Ma i diari di Bobby rivelano che nulla cambiava. “Perché mi hai fatto questo, Dio?”, scrisse. “Sto andando all’inferno? Ho bisogno della tua approvazione. Se l’avessi, sarei felice. La vita è così crudele e ingiusta.” Sua madre continuava a dirgli che poteva cambiare. “Sembrava quasi che quando parlavamo non gli dicessi altro”, racconta. “Pensavo che Bobby non si stesse impegnando con le preghiere”.
Quando Bobby divenne ancor più chiuso in se stesso, Mary la prese semplicemente come una punizione di Dio. “Ora“, dice, “guardo indietro e mi rendo conto che Bobby era soltanto depresso.“. Quando aveva vent’anni, i Griffith, disperati, decisero che Bobby si sarebbe dovuto trasferire a Portland, nell’Oregon, e andare a vivere con una cugina. Inizialmente la mossa sembrò giovare. Bobby lavorava come aiuto-infermiere in una casa di riposo e iniziò ad avere una specie di vita sociale. Ma la depressione si ripresentò e diventò ancor più seria. Alcuni mesi più tardi, nel suo diario, Bobby maledì Dio e aggiunse, “Per quel che mi riguarda, sono completamente inutile. Tu che ne dici? Non m’interessa”.
Metteva continuamente in evidenza la vergogna e il senso di colpa che provava per il suo orientamento sessuale. “Sono malvagio e malato. Sono sporco”, scrisse. “La mia voce è debole e non viene sentita, non viene notata, è dannata”. La sera di un venerdì dell’agosto 1983, Bobby cenò con suo cugina. Lei si accorse che Bobby appariva pensieroso, forse depresso. Sembrava voler parlare di qualcosa, ma disse poco. Poi uscì, dicendo che avrebbe preso l’autobus per andare a ballare in centro.
Il giorno dopo, di prima mattina, due uomini che stavano andando a lavoro notarono un ragazzo, successivamente identificato come Bobby, su un cavalcavia al di sopra di una strada molto trafficata. Secondo la loro testimonianza, il ragazzo si diresse verso il guardrail, si girò e fece un’improvvisa capriola all’indietro, nell’aria. Cadde sulla traiettoria di un camion. Il corpo di Bobby venne riportato a Walnut Creek per il servizio funebre nella chiesa Presbiteriana.
Il sacerdote disse a coloro che parteciparono al funerale che Bobby era gay e suggerì che la sua tragica fine era il risultato dei suoi peccati. In seguito, i Griffith incontrarono il loro sacerdote per un servizio di assistenza psicologica per il lutto. Nella sua disperazione, Mary cercava dei modi per espiare il senso di colpa per la perdita di Bobby. Disse al sacerdote di sapere che c’erano “altri Bobby, là fuori” e chiese come avrebbe potuto aiutarli. Il sacerdote si limitò a fare spallucce e Mary non ritornò mai più in quella chiesa.
Mary non ha comunque perso la propria religiosità. Il suo discorrere risuona di consapevolezza spirituale. Ma ha trovato un Dio molto diverso da quello che pregava alla chiesa Presbiteriana di Walnut Creek. Ha riletto la Bibbia con occhi nuovi ed ha cercato libri sull’omosessualità. Ha capito che non c’era nulla di sbagliato in Bobby, che “era il tipo di persona che Dio voleva che fosse…un elemento della creazione di Dio di eguale valore, degno di essere amato”. Dice ora, “ho aiutato ad instillare una colpa falsa nella coscienza di un bambino innocente“.
Il destino di Bobby Griffith non è inusuale tra i giovani gay. Uno studio riconosciuto dal governo indica che gli adolescenti gay hanno quasi il triplo delle possibilità in più di tentare il suicidio rispetto agli altri adolescenti. Circa il 30% di tutti i suicidi giovanili, dice, può essere ricondotto alle pressioni generate da “una società che stigmatizza e discrimina i gay e le lesbiche”.
Ma la storia di Bobby spicca tra le altre per due motivi. A differenza di altri giovani che si sono uccisi, Bobby ha lasciato un’ampia testimonianza scritta del suo tormento. E a differenza di altri genitori, sua madre non ha negato o seppellito il ruolo avuto all’interno della tragedia, ma ha usato il proprio rimorso per portare aiuto agli altri. Poco dopo la morte di Bobby, Mary ha scoperto l’esistenza della PFLAG (Parents, Families and Friends of Lesbians and Gays – associazione statunitense di Genitori, Famiglie e Amici di Lesbiche e Gay n.d.t.).
Per alcuni anni è stata presidente del capitolo di un gruppo PFLAG dell’East San Francisco Bay ed è apparsa di frequente in talk show televisivi, di solito indossando una spilla con la foto di Bobby e un’altra con il messaggio della PFLAG, “Amiamo i nostri figli gay e le nostre figlie lesbiche”. Ha collaborato alle riprese di documentari sulla tragedia della famiglia Griffith ed è il soggetto di un libro, Prayers for Bobby: A Mother’s Coming to Terms with the Suicide of Her Gay Son (Preghiere per Bobby: una Madre di Fronte all’Omosessualità del Figlio), di Leroy Aarons, fondatore dell’Associazione Nazionale dei Giornalisti Gay e Lesbiche ed ex-corrispondente nazionale del Washington Post. Conduce instancabilmente battaglie a favore di un servizio di assistenza per giovani gay nelle scuole statali, convinta che Bobby sarebbe ancora vivo se la sua scuola avesse avuto un servizio del genere. Ed ha dei valori-guida da dare agli altri genitori.
Ascoltate i vostri istinti di madre e di padre, dice lei, e non ascoltate coloro che vi spingono a violare la vostra coscienza di genitore. “Tutto ciò che avremmo dovuto fare era dire ‘Ti amiamo, Bobby, e ti accettiamo’, e so che Bobby oggi sarebbe qui. Una parte di me voleva andare verso di lui e dirgli ‘Vai bene così come sei’. Per me, quello era il mio amore di madre, quella era la mia coscienza. Ma non avevo la libertà di ascoltarla“..
* La PFLAG è un’Associazione di Parenti, Famiglie e Amici di Lesbiche e Gay degli Stati Uniti
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Testo originale: Mary Griffith’s Story