Sono lesbica e cattolica perchè Dio chi-ama anche me
Riflessioni di Silvia Lanzi*, 12 agosto 2011
Questo di cui sto per scrivere è un argomento che mi tocca molto da vicino, dal momento che sono lesbica e cattolica. Mi tocca perché non sono disposta a sopprimere né la mia fede né la mia omosessualità, perché rinunciare a una delle due significherebbe lobotomizzarmi. Mi tocca perché è nell’amore, nell’amore lesbico, che ho intravisto il volto di Dio. So che questa mia affermazione farà storcere più di un naso, ma non importa. A me è successo esattamente così.
Ora sono arrivata ad un punto della mia vicenda e del mio cammino nel quale sento di dovermi fermare e riflettere un po’. Per poi, mi auguro, ripartire di slancio. Provo, per sfizio o forse no, a fare una breve ricerca in internet, digitando “gay cristiani”. Mi esce una pagina fitta fitta di notizie, riferimenti e pagine web.
Accanto ai siti dei vari gruppi, compaiono quelli di alcune testate giornalistiche gay – Pride, piuttosto che Queerblog – o riferimenti ad altri giornali, sul web e non, che, pur non essendo a tematica omosessuale, trattano, in modo più o meno ampio, dei cristiani LGBT.
Sorrido, perché penso che questa è una realtà con cui deve fare i conti chiunque voglia parlare della realtà gay. Una realtà che parte da lontano. Il 2011 è un anno di anniversari. Trent’anni fa, nasceva Il Guado di Milano; venticinque anni fa la Fonte, sempre di Milano. Mentre il gruppo romano Nuova proposta festeggia il ventesimo anniversario, per citarne solo alcuni. Accanto a queste “colonne portanti” del movimento dei cristiani LGBT, sono poi cresciuti altri gruppi, un po’ in tutta Italia.
C’è addirittura un intero portale che si occupa di fede e omosessualità: è si tratta di gionata.org, che da qualche anno si è assunto l’onore e l’onere di raccontare ciò che succede nell’universo dei cristiani omosessuali: un racconto che non si limita solo all’Italia cattolica, ma che da voce ad un intero esercito di uomini e donne omosessuali che, nel mondo, cercano di vivere in modo fecondo questi due aspetti del loro essere.
Queste sono esperienze che, pur nascendo dalla necessità di vivere la propria fede, potrei definire laiche.
Se è vero come è vero che alcune di queste realtà sono state volute da sacerdoti, per la maggior parte sono state create da laici, e dove anche gli ideatori sono stati dei religiosi, questi hanno agito non tanto spinti dalla gerarchia ufficiale, quanto per rispondere ad un bisogno contingente, e pressante, dei fedeli.
Ultimamente, timidamente e un po’ in sordina – o forse no, visto che se ne è occupato, tra gli altri anche il “Corriere della Sera” (26 febbraio 2011, pagina 12) –, anche la Chiesa delle gerarchie si è aperta ad un dialogo: lo testimoniano le esperienze di Torino e Cremona, dove le rispettive curie hanno addirittura inaugurato una pastorale specifica per l’accompagnamento delle persone omosessuali – segno che questa realtà, nata nell’ombra (non per niente i gay cristiani sono stati definiti i nuovi cristiani delle catacombe), sta venendo alla luce.
Queste “prove di dialogo” sono appena iniziate, ma stanno già dando i primi frutti. Sta cambiando qualcosa? Forse sì. A piccoli, piccolissimi passi.
A questo punto, una domanda è d’obbligo: perché esistono questi gruppi, e soprattutto, perché sono così longevi? E perché da “esperimenti” isolati si sono trasformati in realtà solide e durature?
Perché evidentemente sono le risposte (o meglio cercano di dare delle risposte) a domande di senso non più procrastinabili.
Questa l’introduzione. Ma perché tutto questo? Perché sento che è il momento giusto per rifletterci un po’ e perché sento che sono arrivata ad un punto cruciale del mio percorso.
Scrivo, insomma, spinta da un’esigenza interiore e profonda. Una sorta di ricapitolazione della strada fatta fin qui. Una trampolino per ciò che mi aspetta.
Prima di proseguire però vorrei fare una digressione. Ho appena detto di scrivere “spinta da un’esigenza interiore e profonda”.
Per me lo scrivere, il parlare, il raccontarmi, riveste un’importanza capitale. Perché la narrazione è un passo fondamentale nella presa di coscienza di sé.
La psicologia infatti insegna che le parole circoscrivono e danno spessore al vissuto, fanno emergere l’essenza tra un guazzabuglio di esperienze e sensazioni spesso indifferenziate.
È come se cristallizzassero l’esistenza, fermandola come un’istantanea e dando la possibilità di osservarla e capirla. La parola diventa quindi la via principale per l’autocoscienza.
Cartesio affermava l’identità del pensiero e dell’essere. Ebbene, il cogito cartesiano ha bisogno di un linguaggio per essere esperito. Perché il pensiero si traduce necessariamente in segni e parole.
Sento il bisogno, ho detto, di scrivere queste cose; cose che mi interpellano in maniera diretta. Me, in quanto persona in carne ed ossa con un determinato vissuto.
Le teorie generali sono un’invenzione delle scienze esatte. Siccome le scienze umane non sono esatte, credo che sia bene sempre partire dalla realtà di ognuno: di qui il primato della persona sulla teoria. È per questo che, prima di proseguire, accennerò per sommi capi la mia storia.
È impossibile riassumere una vita intera in poche battute. Ho trentasei anni, una laurea e un lavoro. Sono disabile e sono lesbica.
Fin da piccola ho sentito che c’era qualcosa di “strano” in me. Credevo fosse per colpa del mio handicap. Mi sentivo inferiore agli altri e così ho scelto, non so quanto consapevolmente, di eccellere in un campo in cui mi potessi misurare ad armi pari con gli altri: lo studio e la cultura.
Ho iniziato a divorare libri e a studiare con passione, mi sono diplomata e poi laureata, con risultati più che lusinghieri. Ma, mentre la mia cultura si sviluppava quasi come un tumore maligno, la mia vita relazionale (e intendo relazionale in senso lato) era ai minimi termini.
Da piccola e ancor più da adolescente credevo che il mio handicap fosse uno stigma, un segno che teneva gli altri lontani da me. E intanto la mia sofferenza aumentava, e con essa il mio isolamento. E per consolarmi mi buttavo sui libri.
E così a dieci anni fuggivo i miei coetanei e a venti ero capace di parlare per ore dello stream of consciuosness joyciano, mentre ero incapace di mettere in fila due frasi di una banale conversazione.
E non mi chiedevo nemmeno il perché. Tanto lo sapevo: era il mio handicap. Sono stati necessari ventiquattro anni e un viaggio in Egitto per capire che le cose non stavano esattamente così.
All’indomani della laurea, infatti, sono andata in vacanza ad Hurgada (egitto). E sono tornata innamorata. Dell’animatrice del villaggio.
Com’era possibile che la mia vita uscisse così sconvolta da una banale vacanza? Ho lavorato molto su me stessa in quel periodo. Ho scritto moltissimo, ho parlato moltissimo.
Ho trovato una brava psicologa che mi ha aiutato a far chiarezza dentro di me. È stato un periodo strano. Mi stavo scoprendo diversa da quello che avevo pensato di essere.
Diversa e piena di energia. Finalmente, io che ero stata sempre controllata, fredda e cerebrale, provavo un sentimento dirompente. Che mi faceva piangere ma anche ridere.
Che mi faceva vedere il mondo con occhi diversi. Che mi faceva desiderare di amare ancora. Non si trattava tanto di pulsioni sessuali, quanto della ricchezza e della gioia che mi dava quel sentimento. Così ho imparato a sorridere, prima timidamente e poi sempre con più coraggio.
E ho scoperto che le persone contraccambiavano il mio sorriso. Ho scoperto la bellezza dello stare insieme – ho scoperto che a loro non importava che fossi diversamente abile. Sono rinata. Sono diventata me stessa. È stato un percorso lungo, tortuoso e gioioso.
Mentre ero seguita dalla psicologa, mi è capitato tra le mani un libro. Si intitolava “Alle porte di Sion – voci di omosessuali credenti”, nel quale una trentina di persone raccontavano la loro vita di gay e cristiani.
Si incontravano a Milano – una città che già conoscevo a causa degli studi universitari – e facevano parte del gruppo “La fonte”.
Premesso che il mio percorso di vita mi aveva portato lontano dalla fede – per motivi che non riguardavano affatto le mie inclinazioni sessuali, di in quel periodo non ero ancora cosciente – ho deciso subito che quello era il posto per me. In barba a tutte le paure che mi avevano attanagliato per una vita intera.
Pur non essendo praticante – forse in quel periodo non ero nemmeno credente, sebbene Dio fosse una domanda scomoda e inquieta che si presentava sempre e che sempre scantonavo perché non sapevo cosa rispondere – mi piacque subito quella parola: cristiani.
Non perché mi sentissi in grado intraprendere chissà quale percorso di fede, ma perché era una cosa rassicurante. Pensavo a un ambiente pacato in cui potermi capire. Infatti, nonostante tutto ero talmente incasinata che ritrovare un equilibrio mentale mi sembrava già un risultato fantastico.
E il mondo omosessuale – per lo meno quello di cui avevo sentito parlare – fatto di discoteche equivoche, saune e locali strani era troppo predatorio.
D’altra parte anche una realtà come l’Arcigay o l’Arcilesbica mi sembravano luoghi troppo politicizzati e aggressivi, i luoghi della rivendicazione buoni semmai per un dopo.
Allora io avevo bisogno soprattutto di ricostruirmi nel profondo. E quel “cristiani” mi dava un’idea di qualcosa di molto spirituale, di un ambiente protetto, di un guscio, nel quale sostare con calma e capire ciò che non ero riuscita a capire in ventiquattro anni; un luogo in cui avrei potuto procedere con i miei tempi, senza nessuna forzatura.
Parlando di gruppi omosessuali cristiani, devo fare un paio di incisi.
Alcune persone affermano che i gruppi di omosessuali cristiani sono troppo autoreferenziali, che si contemplano l’ombelico, che non hanno aperture verso l’esterno.
Non la trovo un’affermazione del tutto condivisibile. Certamente, se si mettono a confronto i gruppi di omosessuali cristiani e, ad esempio associazioni come l’Arcigay, le differenze sono lampanti.
In confronto all’azione politica di quest’ultima – volta alla conquista dei diritti civili per la comunità LGBT – sembra che ciò che accade nei gruppi sia irrisorio e fuori luogo (qualcuno, e non sono pochi, pensa che i gay siano pazzi quando cercano l’inclusione nella chiesa cattolica). Meglio la politica della fede, insomma.
In effetti i gruppi come la Fonte in cui ci si racconta condividendo vissuti ed esperienze (ancora la dimensione narrativa come coscienza di sé) di rado hanno un rapporto dialettico con il fuori – ma questo mi sembra un punto di forza, anziché una debolezza.
Infatti, tramite la condivisione e il racconto si mettono a fuoco desideri e pensieri, sentimenti e idee e ci si arricchisce reciprocamente. Confrontarsi, ritrovarsi nel vissuto dell’altro, condividere la propria vita, vuol dire allargare gli orizzonti e sentirsi meno soli: significa capire che non si è una mosca bianca. Con ricadute decisamente positive sulla propria autostima.
Ci si (ri)costruisce. E poi si è pronti per guardare fuori e prendere il volo. Perché non si è più un fuscello in balia della tempesta, ma un albero capace di sopportare venti e tempeste senza essere sradicato.
Gruppi come il Guado, invece, con i loro incontri, i dibattiti pubblici, la proiezione di film, la presentazione di libri fanno un lavoro più “culturale” cercando di elaborare un’antropologia dell’omosessualità, lontana e forse alternativa rispetto ai soliti stereotipi.
Non si tratta ancora di un’azione di “attacco” – come quella promossa da associazioni come l’Arcigay. Si tratta però di un lavoro preziosissimo a livello culturale per scardinare lo stereotipo, trito e ritrito ma che purtroppo non ha ancora perso mordente, dell’omosessuale trasgressivo, tutto lustrini e paillettes ostentatamente, e falsamente felice da una parte e del gay tormentato, infelice e perennemente sull’orlo del suicidio.
Fortunatamente la realtà è diversa, più complessa e ricca di sfumature. Anche se alcuni non ci crederanno ci sono gay e lesbiche, e sono più di quel che si potrebbe pensare, che vivono la loro omosessualità in modo sereno, magari anche nell’ambito di una relazione, senza né nasconderla in modo nevrotico né, in modo altrettanto nevrotico, ostentarla.
Secondo inciso.
Qualche hanno fa ho presentato il mio primo libro “Libera di volare” al Guado di Milano, invitando alcuni amici omosessuali che neanche sapevano dell’esistenza dei gruppi di gay credenti.
Ho potuto constatare che si sono meravigliati rispetto alle idee che nei gruppi si hanno circa le relazioni omosessuali – argomento che era emerso durante il dibattito.
Si sono stupiti perché si aspettavano un’aderenza totale e pedissequa al Magistero della Chiesa – dal momento che il gruppo si qualificava come “cristiano”.
Un’amica mi ha confidato poi che per lei è stato un piccolo shock: colpa di queste posizioni “eretiche” circa l’amore e la sessualità. Per me è stata una rivelazione, non del tutto spiacevole. Si pensa che per il fatto stesso di essere cattolici si debbano chiudere occhi, mente e cuore, sottomettendosi assolutamente ed indiscriminatamente all’autorità – in questo caso il Magistero.
Per fortuna non è così e i cattolici, come tutti, sono chiamati a usare discernimento e a seguire, innanzitutto la propria coscienza. Movimenti come “Noi siamo chiesa”, ne sono un esempio – ma di questo parlerò in un secondo tempo.
Fine dell’inciso.
Ascoltando, facendo insegnamento delle cose emerse in condivisione, toccando con mano come, in un periodo di profondo disagio e di tempesta interiore mi siano state vicine persone in carne ed ossa pronte a confortarmi a confrontarsi con me, a darmi un affetto e un sostegno assolutamente gratuito e disinteressato, e soprattutto innamorandomi, mi sono trovata a domandarmi come mai una/delle persona/e a me assolutamente estranea/e abbia/no potuto volermi così bene.
La donna che mi amava e i miei nuovi amici non erano “costretti” a volermi bene: qualche mese prima non sapevano nemmeno che io esistessi; non c’era alcun legame di parentela/sangue che li costringesse a volermi bene.
Ho iniziato quindi ad interrogarmi sul significato dell’amore, sulla sua gratuità e su cosa esso comportasse.
Ho compiuto, tanto per intenderci, un percorso uguale e contrario a quello di Agostino. Per lui le creature erano una fonte di lussuria e la lussuria lo allontanava da Dio.
La creazione era diventata, mi si perdoni l’anacronismo un divertissement, qualcosa su cui buttarsi per non affrontare le domande della vita.
Per me è stato esattamente il contrario: l’amore umano mi ha costretto a pensare all’amore divino.
Si potrebbe obiettare che tutta la vita di fede parte dalla certezza che Dio è amore.
Che il fatto che Dio ti ami dovrebbe essere un punto fermo: è quello che dovrebbero insegnare a catechismo e nelle omelie della messa domenicale. Ma, per quel poco tempo in cui le ho sentite – a tredici anni, dopo la cresima, ero già uccel di bosco – si è sempre trattato di parole, oppure a me sono sembrate tali.
Poi improvvisamente, nel mio essere sbagliata, almeno per qualcuno, nell’amare in modo sbagliato, ho trovato Dio. Mi piace dire che ho avuto un frontale con lui. E quando ti schianti a cento all’ora contro un muro, ti rendi conto che il muro esiste!
L’esperienza vale più di mille parole.
Mutatis mutandis. Un giorno d’estate ho portato il mio nipotino di cinque anni a fare un giro in campagna. Mi sono accorta che era attratto pericolosamente dalle ortiche.
Non volevo le toccasse, così gli ho ripetuto fino alla noia: “non farlo, altrimenti ti irritano, ti prudono e magari ti vengono le bolle”.
E lui, ignorando i miei consigli, continuava ad avvicinarsi sempre più, finché, inevitabilmente, le ha toccate. “Brucia!” mi ha detto allontanando in fretta la mano “Zia, avevi ragione”
La stessa cosa è successa a me con Dio e il suo amore. Me l’avevano detto. Soltanto. Poi ne ho fatto esperienza concreta. E ho scoperto che avevano ragione.
Ma c’è un abisso nel sentirti dire una cosa e provarla nel tuo intimo, in tutta la sua forza dirompente. A me è capitato così, in una situazione sicuramente marginale, per qualcuno anomala o forse addirittura patologica.
È stata una scoperta incredibile, bellissima. Ho scoperto che essere nella marginalità non è solo una condanna, ma anche una ricchezza.
Infatti, proprio perché la tua esperienza non riducibile a quella degli altri sei costretto a guardarti dentro e riflettere, a domandarti quale significato ha ciò che fai.
In questo modo ti si aprono nuovi punti di vista. Ti lasci interrogare dal mondo intorno a te e a tua volta lo interroghi. Allora nulla è scontato e tutto è un guadagno.
Tutto è più difficile ma è anche più bello, perché la tensione ti tiene sveglio, perché diventi cosciente di ciò che sei e di dove vuoi arrivare, e il tuo cammino acquista un senso.
Ogni cosa diventa nuova e allora vivi davvero e non ti lasci semplicemente vivere (questo discorso dovrebbe valere per tutti, al di là dell’orientamento sessuale e di ogni altra considerazione.
Questo perché ognuno è diverso dall’altro, unico, e, come tale deve trovare la strada che gli è propria che può essere simile o meno a quella degli altri, ma che è comunque qualcosa che risponde all’intimo bisogno di senso di ognuno e che comunque si deve intraprendere in piena coscienza).
Premesso ciò, mi sembra inutile sottolineare che l’incontro che mi ha sconvolto la vita non è stato quello con il Dio dei filosofi – che conosco fin troppo bene – ma con Gesù, Dio in carne e ossa, vivo.
Questa persona mi ha portato dove non avrei mai creduto di andare, dando risposta alle mie domande di senso. Facendomi sentire amata così come sono.
Gesù per me vuol dire Chiesa e Chiesa cattolica. Sembrerebbe dunque una contraddizione in termini il binomio lesbica–credente e pure praticante, ma per me, di fatto, anche per ciò che ho detto più su, è l’unico modo per vivere la fede.
Ciò che affermano le gerarchie ecclesiastiche rispetto all’omosessualità è risaputo (e per chi non lo sapesse si può leggere il “Catechismo della Chiesa cattolica” parte terza, sezione seconda, articolo 6, capo II, artt. 2357, 2358, 2359). Per la Chiesa, gay, lesbiche, bisessuali – ma io ci metterei dentro anche le persone transgender – vivono una condizione intrinsecamente disordinata.
E già qui sorgono le prime perplessità. Non tanto sul contenuto degli articoli citati, quanto sulla virulenza delle affermazioni di certi ecclesiastici – ad esempio il vescovo emerito di Pistoia o quello di Grosseto, tanto per citarne due.
Anche perché il Catechismo, pur restando fermo, anzi direi granitico, nelle sue posizioni afferma anche che “un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate.
Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza.
A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione”.
Mi sembra che i due ecclesiastici non abbiano letto questo brano – o che non se lo ricordino. A chi poi mi chiede a che pro sto in una chiesa mi considera una figlia minorenne, o che sembra respingermi, rispondo che una volta che hai sbattuto la testa contro il muro, non puoi far finta che il muro non esista.
Il nodo sta qui. Come ho accennato più sopra spesso mi si chiede conto non tanto della mia omosessualità, quanto del mio essere lesbica e praticante.
Mi si chiede come posso accettare acriticamente tutto ciò che la chiesa afferma. Questo discorso è molto più ampio rispetto alla sola omosessualità.
Basterebbe parlare solamente dell’uso del preservativo o dell’amministrazione dei sacramenti alle persone divorziate.
Ho pensato parecchio a questo che per alcuni è un dilemma. E credo di essere giunta ad una conclusione. In quanto essere pensante, ancor prima che credente, credo nel primato della coscienza.
Da credente ho la convinzione che Dio, creandomi, mi abbia dotato di un organo molto speciale, il cervello, che non sta per caso nella scatola cranica, ma che deve essere usato.
Non dico che tutto ciò che penso sia la verità, ma nemmeno che io debba subire passivamente verità impostemi da altri. L’obbedienza pedissequa può essere estremamente facile: ci scarica da ogni tipo di responsabilità e da eventuali sensi di colpa.
Ma ci fa vivere a metà. Ci vuole invece capacità di discernere. E questo non solo nella fede.
Credo che la Chiesa sia una creatura di Dio fatta di uomini. Per questo al suo interno distinguo il kerigma (κηρύσσω), dalla dottrina sociale.
Ovvero, ciò che è strutturale da ciò che, per forza di cose, è transeunte. Credo ai dogmi – vi sputo in un occhio se mi dite che Maria non era vergine, o che non è stata assunta in cielo; o che il papa, quando parla ex cathedra, non dice la verità.
Credo anche che tutto il resto sia un tentativo tutto umano di avvicinarsi alla verità. La dottrina sociale della Chiesa è in continuo e costante mutamento.
La Chiesa, dunque, è fondata sulla Verità e, nel contempo, è in cammino verso la verità. Bisogna saper cogliere i segni dei tempi – cambiare per poter rimanere profondamente fedeli al Vangelo.
E se la Verità non cambia mai, cambia invece il mondo. Nuove istanze, nuovi problemi, nuove realtà interrogano gli uomini di buona volontà, e questi ultimi sono tenuti a cercare delle risposte. Lo afferma Gesù stesso (cfr. Luca, 12, 54-56).
Ed è lo stesso Gesù che dice: “È stato scritto, ma io vi dico” o che guarisce un paralitico di sabato o che afferma: “Non è immondo ciò che entra nell’uomo, ma ciò che esce” (Marco 14, 11). Egli, ha lacerato profondamente la legge ebraica, l’ha cambiata affinché essa si compisse.
Anche la Chiesa dovrebbe fare così. Dovrebbe saper cogliere i segni dei tempi, e chiedere perdono per i suoi sbagli.
L’ha fatto, grazie al Concilio Vaticano II o, più recentemente, al mea culpa di Giovanni Paolo II che nel 2000, anno giubilare, ha chiesto perdono per gli innumerevoli errori della Chiesa.
Questo modo di porsi rispetto alla realtà non dovrebbe essere qualcosa che succede solo in situazioni “forti”, ma dovrebbe essere una prassi capillare e continua.
La Chiesa dovrebbe continuare ogni giorno su questa strada chiedendosi sempre se è fedele al Vangelo e cercando modi sempre nuovi per farlo.
Credo nel primato dell’essere umano sulla tradizione. E credo anche che ciò che ho affermato qui sopra non è esclusivo appannaggio della gerarchia ecclesiastica; al contrario, credo che sia qualcosa che ogni cristiano dovrebbe fare.
Quindi è dovere improrogabile del cristiano, di ogni cristiano, interrogarsi sempre, e in ogni luogo, su come avvicinarsi ogni volta un po’ di più all’essenza della verità.
Riguardo all’omosessualità, è in corso questa ricerca della verità? La risposta è fortunatamente sì, ma a piccoli, piccolissimi passi, in modo quasi sommerso.
Come ho ricordato prima questo cammino è stato intrapreso prima dai laici, e poi, in modo ancora balbettante, dalla gerarchia.
Per secoli, l’omosessualità è stata stigmatizzata dalla Chiesa come contraria al disegno di Dio. l’episodio di Sodoma (Gen. capp. 18-19), la lettera di Paolo ai Romani (Rom. 1, 24-27), e ai Corinzi (1Corinzi 6,9), solo per fare alcuni esempi, sono (stati) citati da secoli come condanne contro di essa.
La moderna esegesi, o per lo meno una parte non trascurabile di essa, ha ridimensionato considerevolmente la portata di questi passi.
Rispetto ai tre esempi citati, le sottolineature sono le seguenti: la distruzione di Sodoma deriverebbe dall’aver mancato al dovere dell’ospitalità; la lettera di Paolo ai Romani ha come argomento principale l’idolatria dei pagani; per quanto riguarda quella agli Efesini, le traduzioni fin qui fatte non rispettano a pieno il testo greco originale.
Sbaglia la tradizione, o sbaglia l’esegesi? Credo che chi mi abbia letto fino a qui possa intuire il mio pensiero in merito.
Lasciamo da parte la questione dell’esegesi, che è importante ma comunque non fondamentale e entriamo nel campo delle scienze umane – psicologia, antropologia sociologia in primis – il cui compito principale è quello di cercare di comprendere la psiche umana nella sua complessità.
A partire dalle ricerche di queste discipline da una trentina di anni a questa parte si sono aperti nuovi scenari. Perché?
Perché si è cercato sempre di più di capire cosa succede nella mente umana, quanto nel comportamento degli individui ci sia di “naturale” e quanto di “culturale” (virgoletto questi due termini perché il confine tra l’uno e l’altro è quanto mai fluido).
Credo che sia ormai assodato che l’uomo è una res cogitans – secondo l’accezione di Cartesio – e che come tale sia capace di auto riflessione.
Quindi l’uomo non è solamente tutto istinto o tutta ragione. Credo perciò di poter affermare che in ogni persona coabitino almeno due realtà. Poi ognuno è il risultato della “natura” e del “raziocinio”.
Ma è anche il prodotto di ciò che gli altri vedono in lui e di come egli reagisce alla realtà che lo circonda. Mi rendo conto che il discorso accennato, forse, è un po’ troppo meccanico.
La nostra interazione con ciò che ci circonda è qualcosa di molto complesso: per chiarire questo concetto, si potrebbe dire che il tutto è più della somma delle sue parti. Per cui l’uomo, non è qualcosa di dato una volta per sempre e inanellato per sempre in una definizione. È più simile al magma, fluido e incandescente.
E anche quando questo magma si cristallizza, porta in se la storia delle sue vicende, anzi è il risultato della storia delle sue vicende. Ecco.
Le scienze umane si occupano di questo magma, di riconoscere e capire le varie vicende che lo percorrono e che lo rendono quello che è. Mi viene in mente “Uno, nessuno e centomila” di Pirandello: la psicologia cerca di capire, e di rendere conto di tutti gli “uno, nessuno e centomila” di cui siamo fatti.
Tutto questo per dire come l’approccio all’uomo sia profondamente mutato rispetto, ad esempio, ad un superficiale comportamentismo.
Non più semplicemente causa-effetto, ma una rete molto più estesa e complicata di suggestioni, sollecitazioni, interazioni e risposte.
Ecco allora che, come ogni cosa che concerne l’essere umano in quanto tale, anche il sesso e più in generale la sessualità, non può, e non deve più, essere concepito semplicemente come genialità. Essa ne è una parte e, secondo me, nemmeno la più fondamentale.
Oggi la sessualità non è più intesa come semplice esercizio della genialità, ma come qualcosa di più complesso e multiforme che mette in gioco l’intero essere umano.
Una sua definizione, che mi piace parecchio, è quella contenuta nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dove sta scritto che “essa concerne particolarmente l’affettività, la capacità di amare e di procreare, e, in un modo più generale, l’attitudine ad intrecciare rapporti di comunione con altri”.
Siamo dunque lontani anni luce dall’identità sessualità/genialità. Per fortuna. Quindi si potrebbe dire che la genialità sta tra le gambe e la sessualità sta tra le orecchie.
In questo solco va l’interpretazione del matrimonio: non più come un remedium concupitscientiae, ma come luogo privilegiato nel quale due persone possono entrare in una relazione d’amore reciprocamente arricchente.
In questo modo si pone l’accento sulla centralità della relazione. Perché è in comunione profonda con l’altro che ci si riconosce se stessi e ci si sviluppa autenticamente e armoniosamente (questo ve lo potrà dire qualunque psicologo e/o psicoterapeuta).
Quando si entra profondamente in relazione si riconosce l’alterità, la diversità dell’altro rispetto a me (che rilevanza potrebbe avere infatti, per la mia crescita, entrare in relazione con una copia-carbone di me stesso?), l’unicità sua e mia e la nostra irriducibilità. E si fa esperienza del limite.
Qui il limite non è inteso nella sua accezione negativa. Riconoscersi limitati, e per questo incompleti, ci spinge oltre il limite, verso l’altro, per recuperare una sorta di unità primigenia. Cosa impossibile, ma per questo ancor più bella.
La tensione che ci spinge a uscire da noi stessi, la tenerezza che si prova nei confronti dell’altro, il bisogno di proteggerlo, la necessità di crescere con lui.
Il pensarlo – saperlo – come un interlocutore alla pari, in grado di migliorarci, sostenerci, amarci, di condividere la nostra vita; la consapevolezza di rappresentare lo stesso punto di riferimento per lui. Credo che questo sia il fulcro di ogni relazione matura.
La relazione, qualunque relazione sana e vitale, deve essere feconda. La fecondità, anche qui, non si misura nel numero di figli che una coppia ha, ma su come tale coppia si apre al mondo e agli altri.
Quando ci si sente amati, si sperimenta la propria bellezza, la propria giustezza ontologica, e questo genera tante energie in più: si sorride più spesso, si è più pazienti, si è più felici e meglio disposti verso gli altri – credo che ognuno di noi abbia fatto, almeno una volta nella propria vita, questa esperienza.
Chi è amato si sente bene, e per forza di cose fa girare questo benessere, come un bicchiere pieno fino all’orlo trabocca. E questo è il primo frutto dell’amore.
Questa sovrabbondanza quasi fisiologica, questo senso di appagamento profondo e il desiderio di renderne partecipi anche chi ci sta vicino. Questa è charitas; questo è agape – αγάπη. Amore all’ennesima potenza, come dice in maniera poetica il salmo 132.
Quanto alla bontà dei frutti, è da essa che si deduce la bontà dell’albero (Matteo 7,18).
Se due persone che si amano riescono a vivere con questa modalità il sentimento che li unisce – da una parte il riconoscimento dell’unicità propria e del partner e dall’altra questa apertura all’esterno, alla vita, propria e altrui, in questa accezione – allora credo che si possa dire che la relazione è sana.
Per le cose appena accennate sopra possiamo dire che la diversità su cui si basa la relazione non è principalmente e solamente quella genitale, ma quella, appunto che riconosca insieme la profonda uguaglianza ontologica dei componenti la coppia – entrambi esseri umani, dotati di un’intrinseca dignità – e la loro altrettanto profonda diversità – per bisogna rispettare il proprio partner proprio per la sua unicità e non inglobarlo né tanto meno sopraffarlo (in quante coppie eterosessuali, a una diversità anatomica riconosciuta non corrisponde il riconoscimento dell’altro come alterità e mistero: credo che queste coppie non si possano affatto dire feconde, a dispetto della differenza anatomica e dalla presenza di figli)
In questo contesto, allora, assumono una nuova sfumatura di significato termini come sessualità e castità.
La sessualità, non è tanto qualcosa di riconducibile alla sola genialità, che ne è una parte, ma, più correttamente è il modo di interagire dell’individuo con quanto lo circonda, in primis gli altri esseri umano, in quanto essere umano sessuato – in quanto uomo o donna: un dato che, come insegnano gli psicologi e gli psichiatri non è unicamente riconducibile alla propria conformazione anatomica, ma mette in gioco la sensibilità e l’interiorità di ognuno, la sua attività intrapsichica e il suo rapportarsi alla realtà e al mondo.
La castità è, sulla scia di quanto scritto appena sopra, l’accogliere l’altro nel suo essere altro, con la sua sensibilità, i suoi valori e i suoi tempi e riguarda, almeno secondo me, non solo la sfera genitale, ma tutta la sfera dei comportamenti, proprio come succede con la sessualità.
La sanità, e la santità – anche in senso laico – di qualsiasi rapporto di coppia ha più a che fare con sessualità e castità che con la genialità, che pur essendo un elemento costituente di questa realtà, non è comunque il principale.
Se dunque l’importanza della genitalità all’interno della vita di coppia (eterosessuale) è stata in qualche modo, giustamente ridimensionata, perché rimane il punctum dolens, il peccato per eccellenza, della coppia omosessuale? E perché viste le premesse, la coppia omosessuale non potrebbe semplicemente esistere?
Ho finito. Chi ha avuto la costanza di leggermi fin qui, potrà obiettare che ho fatto un gran guazzabuglio tra psicologia e teologia, tra fede e ragione, spiritualità e scienza. Ha ragione. Ma credo che l’uomo sia uno.
E credo anche che questo accostamento sia tutt’altro che indebito. La psicologia indaga i moti dell’anima e la spiritualità, e la fede, siano un bisogno imprescindibile dell’essere umano. Sentirsi, sapersi, amati è l’atto fondativo di ogni persona – forse sarebbe ora di cambiare il cartesiano res cogitans in res amans. E chi ha fede fa esperienza profonda dell’amore, quello di Dio.
In conclusione. Nella Chiesa cattolica il dibattito sulla liceità dell’amore omosessuale, sta facendo i primi passi.
Le nuove scienze umane portano alla luce istanze che non si possono soffocare facilmente – istanze che prima erano soffocate ma che grazie ad un nuovo modo di vedere e interpretare la realtà, emergono in maniera via via più preponderante.
La Chiesa, vivendo nel mondo e occupandosi degli uomini – non degli uomini in astratto, ma di quelli che vivono qui ed ora – si deve confrontare con queste istanze e farle proprie.
Per quanto riguarda il discorso sull’omosessualità questa mia presa di posizione potrà sembrare assurda, ma se si pensa al cambiamento dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti della schiavitù, o alle posizioni che aveva e che ha nei confronti della donna, queste affermazioni, forse, sembreranno meno dirompenti.
Ebbene, in questo senso qualcosa si muove se è vero come è vero che è possibile collazionare una bibliografia in questo senso.
E i libri sono di autori italiani, o tradotti in italiano e sono stati editi in ambito cattolico. Tra questi, si possono citare, a mo’ di esempio:
Albini Christian, Legge Naturale e Omosessualità: per un’antropologia teologica inclusiva, incontro pubblico c/o il Guado, sabato 4 giugno 2011
Autiero Antonio, Knauss Stefanie (a cura di), L’enigma corporeità: sessualità e religione, Centro Editoriale Dehoniano, 2010
AA.VV., Pur sempre nostri figli. Un messaggio pastorale ai genitori di figli omosessuali e suggerimenti, Paoline editoriale Libri, 1998
Danna Valter, Fede e omosessualità. Assistenza pastorale e accompagnamento spirituale, ed. Effeta’, 2008 (guida della diocesi di Torino per la pastorale delle persone omosessuali)
Gramick Jeannine – Nugent Robert, Anime Gay. Gli omosessuali e la Chiesa cattolica, Ed. Editori Riuniti, Giugno 2003
McNeill John, Libertà, gloriosa libertà, Edizioni Gruppo Abele, 1996
Pezzini Domenico, Alle porte di Sion. Voci di Omosessuali credenti, ed. Monti, 1998
Piana Giannino, Omosessualità. Una proposta etica, Editore Cittadella, 2010
Quaranta Pasquale (a cura di), Omosessualità e Vangelo, Franco Barbero risponde, Gabrielli editori, 2008
Quindi sembrerebbe che, sia pur timidamente, la Chiesa cattolica si stia aprendo ad un dialogo con i suoi figli e le sue figlie omosessuali.
Ciò che dà speranza è che questo sia un dialogo interno alla Chiesa, sollecitato da realtà che ne fanno parte integrante. Il dibattito è appena iniziato, ma il fatto che si siano pubblicati libri come questi, fa ben sperare.
E questa è una cosa buona, perché è sintomo di un’istanza profonda di rinnovamento per aderire sempre di più a quella Verità che è il Vangelo, che è Cristo stesso.
* Silvia Lanzi è nata Crema. Ha collaborato col settimanale diocesano cremasco «Il nuovo Torrazzo» occupandosi di cultura e spettacoli. È cattolica e lesbica. Ha pubblicato i romanzi “Libera di Volare” (edizioni Kimerik 2006) e “Coincidenze” (Editore Boopen, 2010) ed è una delle animatrici del Progetto Gionata su fede e omosessualità (www.gionata.org).