Quando il paradiso è in periferia. Il volto dell’integrazione

In una rotonda nel mio quartiere c’erano stati i tossici che hanno bruciato una macchina. E io l’ho ripresa col telefonino.
Ma questa è una bella zona, non ci sono tanti delinquenti, e a me piace stare qua»: a parlare è il moldavo Nicolaj, tredici anni, maglietta bianca e sguardo furbo, da otto anni in Italia.
Lei ha 14 anni e da due è nel nostro Paese. «Vivevo in corso Emilia ed era una brutta zona, così abbiamo cambiato quartiere e qui mi trovo meglio», spiega Lilia, 14 anni, nata in Bulgaria.
«Il mio quartiere è bello ora che è primavera e ci sono i giardinetti fioriti, però non si incontra tanta bella gente» dice Stefania, 13 anni e i capelli lunghi, torinese, figlia di torinesi. «Io ho fatto un video sul soft-air che è una guerra finta che si gioca nei boschi e ti spari con pallini di plastica», interviene Vincenzo, albanese di 14 anni.
Nicolaj, Imane, Lilia e Vincenzo sono solo alcuni dei «nuovi torinesi» d’una scuola media, la Norberto Bobbio nel cuore di un quartiere di vecchie fabbriche, palazzoni Anni Settanta incollati a casette operaie di inizio Novecento, estremo limite della città verso la campagna e l’autostrada che porta a Milano.
E proprio Barriera di Milano è il nome della zona dove il degrado di Tossic Park (le rive della Stura frequentate da spacciatori e tossici) si mescola a un’identità cangiante: accanto ai vecchi torinesi, gli immigrati meridionali hanno lasciato il posto a quelli che vengono dal Marocco, come dalla Cina, dal Perù come dalla Moldavia.
Ai ragazzi delle quattro scuole medie del quartiere l’Associazione Barriera ha pensato di mettere in mano un telefonino o una penna, perché raccontassero con le immagini e con le parole come vedono il mondo in cui vivono.
Ne è nata, complici la Compagnia di San Paolo e l’Accademia di Belle Arti una mostra, «Barriera Mobile», che è un puzzle di sensazioni, colori e immagini: il quartiere centrifugato attraverso l’occhio dei ragazzi. Colpisce la voglia e l’entusiasmo con cui i «nuovi torinesi» hanno colto l’occasione di raccontare la loro esperienza di vita.
Un’urgenza che i ragazzi italiani non sembrano sentire nella stessa misura: se gli stranieri hanno sentito la necessità di esprimersi, aggredendo e rielaborando, con i mezzi messi a loro disposizione, la realtà che li circonda e le loro «radici», gli italiani non hanno mostrato le stesso entusiasmo e la stessa voglia di esprimersi.
«I ragazzi immigrati – conferma Emanuele Catellani, che ha curato la mostra – sono stati più reattivi, ma è comprensibile: vivono a metà tra due culture, quella del Paese d’origine e quella della città che li ha accolti. Sentono più forti le radici e hanno quindi più voglia di raccontare quella che sentono come un’esperienza unica».
Per non disperdere queste testimonianze in mille rivoli, quelli di Barriera hanno pensato di farle ruotare intorno ad alcuni cardini. «Filo conduttore del lavoro – spiega Edoardo Cinalli, anima del rapporto con gli studenti e compositore delle musiche che danno il ritmo alle immagini – sono stati alcuni temi, molto ampi: l’amicizia, l’origine, il paradiso».
I ragazzi hanno scelto angoli lungo il fiume, dove tra la spazzatura e i rifiuti ci si esercita con lo skate, ma anche l’oratorio salesiano Michele Rua, dove magari si sta sulle scale a scambiarsi una birra.
C’è chi si è fermato davanti a un semaforo e ha ripreso i vecchi della zona, chi invece si è messo a ballare la tectonic, che è la danza del momento tra gli adolescenti.
Ci sono macchine parcheggiate e giardinetti dedicati a Peppino Impastato (la politicizzazione è un retaggio di quando il quartiere era una delle roccaforti «rosse» della città: qui il Pci negli anni d’oro aveva percentuali bulgare), dove magari, come diceva Nicolaj, «è bello stare con gli amici».
Qualcuno ha ripreso i muri delle fabbriche, qualcun altro le insegne dei negozi, c’è chi ha inseguito i piccioni sulla strada e chi semplicemente l’asfalto lucido dopo la pioggia.
Ne esce un ritratto dove anche il degrado è in qualche modo metabolizzato: c’è più affetto che paura nei loro sguardi.
«Ma la paura è un sentimento che provano più i genitori che non i ragazzi – spiega Carola Garosci, preside della Scuola Bobbio. Davanti a figli in un età difficile, molti cercano di dissuaderli a stare in strada ed enfatizzano il problema della sicurezza».
«Il paradiso per me sono le montagne e vorrei vivere in un mondo bianco come la neve» ha scritto una ragazzina bulgara. «Se ci mettiamo d’impegno, possiamo fare il paradiso ogni momento» scrive un altro. «Io mi immagino un paradiso free-style», scrive un altro ancora.
E le definizioni del Paese d’origine, per molti una sorta di paradiso perduto, campeggiano su un muro della mostra: «felice», «diverso», «mio», «verde».
Una lunga catena di lampadine luminose su una grande pianta del quartiere segna i percorsi che si fanno per andare da una all’altra delle quattro scuole coinvolte nel progetto: scopri che occorre un serpente sinuoso per dribblare ora le torri della Falchera (il quartiere modello Ina-Casa degli Anni 50) ora lo stabilimento dove la Fiat costruiva camion e trattori, ora il Tossik Park.
Con le foto di decine di facce (c’è ovviamente chi ha gli occhi a mandorla e chi la pelle nera) hanno montato quattro volti alla Frankestein, in cui la bocca è di uno e lo zigomo di un altro.
E il risultato finale è un mix di dolcezza e inquietudine, forse metafora del vivere nel loro quartiere ma anche della loro adolescenza. Sembra quasi arte africana invece la microgalleria dei volti dipinti in un altro video assemblato dall’artista torinese Chiara Pirito.
L’originale è nell’atrio della scuola Bobbio. «Il venti per cento dei nostri allievi – dice ancora la preside – è di origine straniera. Sono molto intelligenti e non c’è bisogno di insegnanti di sostegno: hanno imparato velocemente l’italiano anche se in casa quasi tutti parlano ancora la lingua d’origine».
Il grande filosofo può essere contento di aver lasciato il nome a questa scuola.