Se le nozze gay ricordano la battaglia per il matrimonio tra bianchi e neri
Articolo del 22 febbraio 2013 di Elena Tebano pubblicato su La ventisettesima ora
Laici o religiosi, c’è una cosa su cui gli oppositori del matrimonio gay sono d’accordo: permettere agli omosessuali di sposarsi significherebbe negare la differenza fondamentale tra maschile e femminile. Una differenza che invece è alla base della «costruzione antropologica dell’umanità ed è voluta da Dio anche come un segno della nostra finitezza», ha affermato sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia, citando le parole del Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim.
Una differenza legata alla «complementarità» tra i sessi e «fondamentale persino per l’evoluzionismo», ha ribadito Adriano Pessina, ordinario di Filosofia Bioetica all’Università Cattolica di Milano. Il passaggio logico alla base di questo ragionamento è tanto semplice quanto efficace: l’ineliminabile differenza tra maschio e femmina sancita nella Bibbia è un fatto naturale e universale, deve quindi valere anche per i laici e orientare la nostra concezione del matrimonio.
L’argomentazione riecheggia quella con cui nel 1958 un giudice della Virginia condannò i coniugi Mildred e Richard Loving a lasciare lo Stato e decretò nulle le loro nozze (in caso contrario rischiavano fino a 5 anni di carcere): «Dio Onnipotente ha creato le razze bianca, nera, gialla, malese e rossa e le ha situate in continenti separati. Non c’è nessuna ragione per autorizzare il matrimonio tra le razze, se non il fatto di interferire con questa disposizione. Il fatto che Dio abbia separato le razze, infatti, mostra che non intendeva farle mischiare», scrisse il giudice. La loro «colpa» era infatti non tener conto dell’insopprimibile «differenza» tra neri (lei) e bianchi (lui). In quel caso la «differenza» tra le razze veniva assolutizzata come ostacolo al matrimonio (anche se i Loving non si rassegnarono, e grazie al loro ricorso nel 1967 la Corte Suprema statunitense abolì ovunque il divieto di matrimonio interraziale); oggi quella tra i sessi viene assolutizzata come sua condizione.
In comune le due concezioni hanno però l’idea che alla base del matrimonio ci siano le caratteristiche dei coniugi (di genere come di razza) e di conseguenza il retropensiero implicito che il suo «valore» si giudichi dai figli che ne verrebbero (o non ne verrebbero). Ma sta proprio qui il malinteso, perché la condizione necessaria del matrimonio – oggi, laicamente – è solo la progettualità di coppia. Sposarsi significa infatti fare di due destini separati un unico «noi» e chiedere che lo Stato e la società tutelino questa identità di coppia come nucleo della famiglia.
Tanto è vero che si resta sposati anche se non si hanno figli. Se si escludono i gay e le lesbiche dal matrimonio, si privano del senso e della dignità che la legge riconosce alla coppia, una delle dimensioni fondamentali dell’esistenza umana. Si rendono in altre parole cittadini di serie B. È superfluo dirlo, ma aprire a tutti l’accesso al matrimonio non vuol dire imporlo. Né che «gli omosessuali negano l’importanza di una relazione con un partner di sesso differente», come ha affermato il filosofo Adriano Pessina nell’intervista al Corriere. La stragrande maggioranza dei matrimoni rimarrà tra persone di sesso diverso, come mostrano i Paesi europei in cui le nozze omosessuali esistono da quasi 12 anni.
Anzi, aprire il matrimonio civile alle coppie gay potrebbe addirittura rafforzare quello religioso: chi lo ritiene un vincolo sacro tra uomo e donna può sposarsi in Chiesa. Il matrimonio gay oggi è una questione di eguaglianza, esattamente come lo è stato un tempo il matrimonio interraziale. Non è un caso che il primo presidente a sostenere apertamente le nozze omosessuali, negli Usa, sia Barack Obama, figlio di un nero e di una bianca: quando è nato, nel 1961, nel suo Paese c’erano ancora Stati che non riconoscevano le nozze dei suo genitori, a causa della loro «differenza».