Sull’omosessualità le chiese scendano dalla cattedra e ascoltino le persone
Riflessioni di Emilio tratte da Acqua di Fonte n.3 del maggio 1997
Mi è da poco capitato tra le mani un articolo che ha suscitato nella mia mente una serie di ragionamenti con cui mi ritrovo a fare i conti sempre più spesso, a volte con analitica ossessione. Per prima cosa devo ringraziare l’autore di quell’articolo (“L’ideologizzazione dell’omosessualità” di I. Fucek in Medicina e Morale 1996/3) — l’eminente Prof. Ivan Fucek, Ordinario presso la Pontificia Università Gregoriana — che mi ha aiutato ad elaborare una più profonda analisi di me stesso.
Io non sono molto abile nell’esternare con le parole le mie emozioni, i miei sentimenti… ebbene: il prof. Fucek è riuscito a descrivere con una forma corretta, elegante, concisa ed eloquente l’esatto contrario di quello che provo.
Rileggendo quelle parole mi viene da pensare che non ho mai «compreso pian piano di avere un vuoto abissale dentro di me» in quanto omosessuale; mi capita di provare una sensazione di vuoto quando vivo l’esperienza di un amore non corrisposto, quando realizzo di avere dei limiti, quando devo ammettere con me stesso, ma soprattutto con gli altri, un mio fallimento, i miei errori, i miei difetti, oppure quando riconosco in altre persone talenti e pregi che a me mancano; ma non si tratta di vuoto “abissale”, né tantomeno sterile… è una sensazione che provoca sofferenza e mi aiuta a capire che solo riconoscendo certe mie mancanze posso effettivamente fare dei passi avanti.
Sono pienamente d’accordo con il professor Fucek sul fatto che tendo a soddisfare l’istinto, certo, ma non in modo esasperato, irrazionale ed animalesco. Dissento profondamente quando egli invece afferma che esiste una diretta proporzionalità tra la soddisfazione dell’istinto e l’acuirsi del vuoto abissale dentro di me.
Non vorrei sembrare troppo polemico, ma a mio avviso la gratificazione-soddisfazione del mio “istinto” provoca in me una sensazione di benessere tale da farmi vivere davvero con gioia, serenità e felicità la mia condizione esistenziale.
Vorrei qui specificare che per me “soddisfare l’istinto” significa in primo luogo vivere in relazione feconda con gli altri e per fare questo è necessario che io percepisca la possibilità della mia vocazione alla relazione.
Mi piace ricordare qui ciò che scrive don Domenico (Pezzini ndr) a proposito dell’uscire dalla vergogna e dalla clandestinità, su cui mi trovo profondamente in sintonia: «Il minimo che si chiede è che la persona omosessuale possa essere se stessa almeno in una cerchia di amici, almeno nella propria famiglia, e — perché no? — se è credente, nella sua comunità».
Negli ultimi due anni ci sono stati dei momenti in cui ho “gridato” la mia diversità, duramente, aspramente e quasi chiedendo un riscatto al mondo intero per l’amarezza nata dalla solitudine in cui ho vissuto in passato. Questa solitudine mi aveva indotto a pensare di poter fare a meno di condividere con la famiglia e con i miei amici questa parte di me…
Mi sbagliavo: io ho bisogno di essere preso in considerazione per quello che sono dalla mia famiglia, dai miei amici, dai sacerdoti che mi confessano. Non lo avevo mai ammesso così apertamente. Certo, potrei vivere, o forse sopravvivere, ugualmente, ma non riuscirei a rispondere in modo naturale alla mia vocazione alla relazione, lo farei invece tra mille paure, difficoltà, limitazioni e vergogne.
A volte (tante volte) ho la presunzione di credere di essere esonerato dalla necessità di una educazione continua per “poter amare di amore autentico”. Ma mi viene spontaneo chiedermi in che modo e su quali basi concrete si può fondare questa “educazione permanente”, se non posso condividere con le persone che mi sono più vicine questa mia condizione.
Penso ad esempio alla difficoltà che vivo per questo con i miei genitori, ma credo che saper accogliere (o magari “sopportare”) i loro interventi sull’argomento, significa mettere continuamente alla prova le mie convinzioni, condividere con loro qualcosa di me che ritengo significativo, tentare di costruire un luogo (metaforicamente parlando) in cui vivere serenamente la mia affettività.
Infine è mia ferma convinzione mettere seriamente in dubbio l’affermazione di I. Fucek secondo cui la mia “attività” di omosessuale (inorridisco di fronte al termine attività, e auspicherei di mutarlo in condizione), sarebbe generatrice di un senso di rifiuto da parte di Dio. La riflessione su questo problema non è certo un gioco per me. E non vorrei passare dalla polemica alla provocazione, ma rileggendo la mia esperienza posso attestare che è stata proprio la mia condizione di omosessuale, con tutte le gioie e le sofferenze che necessariamente da essa derivano, a farmi avvicinare a Dio.
Anche attraverso l’incontro — dentro la Chiesa — con un gruppo di persone che come me si professano credenti, e che mi ha aiutato e sostenuto in questo cammino.