Testimonianze di fede. Viaggio tra le famiglie cristiane con figli gay e lesbiche
Interviste di Lidia Borghi*, gruppo Bethel di Genova, 19 maggio 2011
Susanna ha quarantotto anni ed è la madre di un ragazzo di ventiquattro anni, Matteo. Quando la donna venne a sapere che l’orientamento sessuale del figlio non era quello che lei si era immaginata, prese la cosa con grande negatività.
Poi si rese conto di aver sommerso Matteo con un masso enorme e di averlo ferito fin nel profondo e comprese che si stava sbagliando, poiché seguiva in modo pedissequo la “tradizione culturale e cattolica”, come mi ha rivelato lei stessa.
Aggiunge Susanna: «Poi sono nate le paure degli ambienti che poteva frequentare, immaginando chissà quale inferno. (…) Il messaggio che arrivava a Matteo era che non mi fidavo di lui. Ma non era cosi, perché mi sono resa conto che sono tante le paure che accomunano tanti genitori di figli adolescenti, a prescindere dal loro orientamento sessuale.
Paure che, comunque, in parte hanno origine nell’educazione ricevuta (di tipo cattolico. N.d.a.). Matteo mi ha insegnato tante cose, tra cui la visione dell’insieme delle religioni; è con lui che ho imparato a conoscere in parte altri modi di credere, anche se resto dell’idea che, comunque si possa chiamare, tutti crediamo».
Anche la sorella e la madre di Susanna hanno contribuito ad aiutare la donna a comprendere ed oggi Matteo ha un compagno neo diplomato che frequenta con regolarità la casa di Susanna. Anche suo figlio è spesso insieme ai genitori del fidanzato, magari in occasione delle feste religiose.
Quando le ho chiesto che cosa pensasse dell’ostracismo riservato dalla chiesa cattolica alle persone omosessuali, Susanna ha risposto: «sono sempre riusciti (i preti cattolici. N.d.a.) a far credere alla gente l’esistenza del paradiso e dell’inferno per (…) poter avere in mano non solo la mente ma anche l’anima delle persone, incutendo paura e sofferenza, già solo se non frequentavi la chiesa, ad esempio».
Una madre ed un padre
Maura e Mario sono i genitori di Silvia, 26 anni, una giovane lesbica che ha subìto una pesante discriminazione all’interno del gruppo di giovani cattoliche e cattolici della parrocchia di cui faceva parte.
I suoi genitori non dimenticheranno mai il 2004. Lo avvertono come un anno cruciale, una sorta di annus terribilis, durante il quale vennero a sapere dell’omosessualità della figlia. Dolore, rabbia ed un sordo risentimento animarono, fin da subito, la madre della giovane.
Maura aveva appena ricevuto una diagnosi terribile, per la sua salute: un “gravissimo problema visivo”, come lei stessa lo ha definito, le provocò uno scoramento che, ne è sicura, contribuì ad acuire il sentimento di avversione nei confronti di Silvia.
«Dapprima avevo preso la cosa con discreto ottimismo – afferma Maura – e l’avevo assolutamente accettata, intanto sarebbe certo cambiato tutto, era una faccenda passeggera, una cosa da ragazzi, l’ultimo colpo di coda dell’adolescenza, poiché Silvia aveva all’epoca diciannove anni. Invece il tempo passava ed all’ottimismo iniziale si erano sostituite la disperazione e la rabbia contro tutti coloro che reputavo in qualche modo responsabili della situazione di mia figlia».
Poco tempo dopo la donna scoprì l’AGeDO di Milano e poté, infine, uscire da quel torbido periodo di “confusione ed ignoranza”, sono parole sue, che le avevano impedito di accettare con serenità la condizione umana della figlia: «L’unica idea ragionevole non mi aveva minimamente sfiorata, ovvero quella di cercar la spiegazione semplicemente nella natura che rende le persone uniche ed irripetibili nella loro originalità.
Sono riuscita con mia figlia a stabilire un accordo e un’intesa che ci ha legate ancor più profondamente rispetto al passato.
Se amavo Silvia di un amore sconfinato, tale amore è raddoppiato poiché ho ritrovato mia figlia e l’ho ritrovata nel momento in cui ho capito che dovevo lasciarla libera di seguire la sua natura, i suoi sentimenti e le ragioni del suo cuore».
Durante un pomeriggio trascorso insieme a Maura, le ho chiesto come viva l’ostracismo della chiesa cattolica nei confronti delle persone omosessuali e lei mi ha risposto di essere “molto arrabbiata”: «Silvia è stata emarginata e messa fuori dal suo gruppo di giovani cattolici.
Quelle persone non avevano alcun diritto di giudicarla. Si sono accorte che qualcosa, secondo loro, non andava perché Silvia giocava a calcio. Don Fernando (il parroco di allora. N.d.a.) non ci vedeva nulla di male: “Ce ne fossero di persone come Silvia!”, ha commentato.
Mia figlia, subito dopo essere stata discriminata, non ha mai più frequentato il gruppo e la parrocchia, la maggior parte dei cui esponenti le ha tolto il saluto, motivo per cui io ero, all’epoca, molto triste. Don Fernando era dispiaciuto quanto me».
Storia di una famiglia arcobaleno tra Genova e Savona
Francesco Serreli ha cinquant’anni e vanta un passato di attivista dei diritti civili all’interno dell’Arcigay di Genova, in qualità di presidente.
Ama Edo, 51 anni, il cui figlio, Stefano, nato dal matrimonio con una splendida donna che non c’è più, è un giovane studente di medicina, bisessuale, che vive sotto lo stesso tetto con papà e papà.
Francesco si definisce “credente ma non praticante“ e spiega il perché: «Non mi sento di far parte di una chiesa dove i vertici non accettano e non riconoscono la mia persona e la mia relazione, li trovo disumani e poco coerenti con il messaggio d’amore di Gesù Cristo.
Non voglio e non mi interessa aver nulla a che fare con questa gente, io so che Dio mi ama per quello che sono e mai mi condannerebbe, perché condannerebbe se stesso che mi ha creato gay».
La madre di Francesco non ha mai accettato l’omosessualità del figlio e la sua opposizione è diventata, con il tempo, ancor più fiera, poiché – dice lui – facente parte di un movimento religioso integralista cattolico (i Focolarini. N.d.a.) che condanna come peccaminosi i rapporti d’amore fra persone dello stesso sesso: «mia madre non riconosce la mia famiglia, tanto da non volerne sentire neanche parlare (…); questa è per me una grande sofferenza, tanto che ho scelto di vivere la mia storia d’amore e sono ormai quasi sei anni che non la vedo; la mia famiglia ora sono Edo e Stefano.
A differenza dei parenti di Edo, pochissimi dei miei sanno di me e della mia vita, ma con nessuno ci si frequenta o ci si sente, vista la distanza che ci separa. Solo una cugina sa tutto sin dall’inizio e mi ha sempre appoggiato nelle mie scelte».
Malgrado Francesco non sia il padre biologico di Stefano, lo ama come se lo avesse concepito e si preoccupa per il suo futuro, soprattutto quello sentimentale.
Il suo “figlioccio”, come lui a volte lo chiama, per ora è single, ma non perde occasione per mettere a parte i suoi due padri dei desideri e dei sogni di un ragazzo come tanti che vorrebbe incontrare una persona da amare davvero.
Un prete e un padre
Il gruppo AGeDO di Foggia nacque nel 2010 e venne fondato da Gabriele Scalfarotto, don Dino D’Aloia e don Michele De Paolis, l’uno creatore di Casa Eirene, un centro d’accoglienza per persone disadattate, l’altro storico ideatore ed instancabile animatore della Comunità Emmaus di Foggia: «Don Michele e don Dino, due preti scomodi – sono parole di Gabriele –.
Amati dai più umili. Circondati da emarginati dignitosi e da volontari, si sono subito resi disponibili a sostenere questo ateo rispettoso (Gabriele. N. d.a.), intento a una dura battaglia sui diritti del popolo LGBT e con lui a combatterla e a vincerla».
Don Michele, classe 1921, ha risorse inesauribili: veste sportivo, gestisce con dimestichezza il PC, la posta elettronica e il Web, ha un profilo su Facebook e la sua prosa è snella e scorrevole.
Senza arzigogoli o giri di parole va dritto al punto: «Oggi l’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli omosessuali è severo, disumano e crea tanta sofferenza, affermando che l’omosessualità è peccato. (…) Alcune persone di chiesa dicono: “Va bene essere omosessuali, ma non debbono avere rapporti, non possono amarsi!” È la massima ipocrisia. È come dire a una pianta che cresce: “Tu non devi fiorire, non devi dar frutto!”. Questo sì, è contro natura!»
Don Michele è strenuo fautore della necessità di estirpare i pregiudizi dalle menti e dai cuori delle tante persone che incontra sulla sua strada di sacerdote.
A lui sembra il meno che possa fare chi mette ogni giorno in pratica il Vangelo, laico o religioso che sia.
* La mia inchiesta è partita da Gabriele, co-fondatore di AGeDO Foggia, grazie a Claudio Cipelletti, il regista milanese autore di due documentari di utilità sociale, Nessuno uguale e Due volte genitori, che rappresentano altrettante pietre miliari, dei veri punti di riferimento per le persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali (da cui la sigla internazionale LGBT) ed i loro famigliari.
Poche settimane dopo uno dei coordinatori di Progetto Gionata, mi ha messa in contatto con diverse persone che avrebbero potuto essermi utili nell’intraprendere questo lavoro e, fra queste, c’era anche Gabriele, il quale mi ha rivelato che ben due dei co-fondatori di AGeDO Foggia sono preti.
Da quel giorno le testimonianze che ho chiesto a madri e padri di persone omosessuali sono giunte in quantità, garantendo all’inchiesta una grande varietà di pensiero.
Ciò ha fatto sì che questo reportage, composto di tre lunghi articoli, possa oggi essere un’unica, grande testimonianza corale, la prima, nel nostro Paese, a dar voce ai famigliari, credenti e non, di persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali.