Negli USA un passaggio epocale: la Corte Suprema dice sì al matrimonio gay
Articolo del 1° luglio 2013 di Francesco Bilotta pubblicato su Critica liberale
La Corte suprema degli Stati Uniti, con la sentenza del 26 giugno scorso, ha messo all’angolo gli oppositori del matrimonio tra persone dello stesso sesso d’oltreoceano, con un argomento strettamente giuridico: le norme federali non possono rendere inoperante la decisione dei singoli Stati di riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso sesso. È questo il cuore di una decisione che è stata salutata in tutto il mondo come un passaggio epocale nella lotta per l’eguaglianza delle persone omosessuali. Ciò che la Corte suprema depreca del Defense of Marriage Act (DOMA) del 1996, voluto da Clinton, è il fatto che renda le unioni omosessuali «matrimoni di serie B», dal punto di vista del diritto federale.
Quella legge – dice la Corte – non ha altro scopo che «imporre la disuguaglianza». Ed ecco che torniamo al solito punto: è tollerabile discriminare una parte dei cittadini di un Paese, impedendogli di contrarre matrimonio? In Italia, il dibattito pubblico non sfiora minimamente il tema dell’uguaglianza. Anzi, è tutto un fiorire di consigli alle persone omosessuali perché si guardino bene dal cadere nelle maglie di un istituto di cui gli eterosessuali da tempo diffidano. Nessuno che si chieda perché gli eterosessuali debbano essere liberi di complicarsi la vita con il matrimonio e gli omosessuali no.
Nell’esprimere il proprio compiacimento per l’introduzione del matrimonio egualitario in Francia, al termine della votazione da parte dell’Assemblée nationale la Ministra della Giustizia, M.me Christiane Taubira, ha affermato: “lottare contro le discriminazioni è responsabilità dei poteri pubblici”. In Italia, un’affermazione del genere non si è mai sentita. Noi, invece, viviamo della politica dei piccoli passi, dello scrupolo verso quella parte dei cittadini italiani che sarebbero “infastiditi” dal raggiungimento di un traguardo di eguaglianza come questo. La ormai ex Ministra per le pari opportunità, l’on. Idem, lo ha detto e ripetuto più volte: no al matrimonio per le coppie dello stesso sesso, perché il Paese non è pronto. È la dottrina bersaniana, che – se dalle parti del Partito democratico ci fosse un po’ di onestà intellettuale – andrebbe esposta più chiaramente in questi termini: no al matrimonio per le coppie dello stesso sesso perché il Partito democratico non è pronto. E ciò in duplice senso: sia nel senso che se si dovesse cominciare una battaglia parlamentare di questo tipo, immediatamente l’ala cattolica farebbe le barricate spaccando irrimediabilmente il partito, sia nel senso che il Partito democratico è inidoneo strutturalmente a una battaglia simile. Il Partito democratico è pensato e vive come una struttura funzionale al consenso elettorale. È per questo che non può abbracciare una battaglia politica minoritaria come il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Anche qualora ci fossero i numeri per far passare in Parlamento un progetto di legge per il matrimonio tra persone dello stesso sesso, il timore del Partito democratico di alienarsi i consensi degli elettori “moderati” sarebbe paralizzante. Come ebbe a dire Romano Prodi, questa è una questione che riguarda poche persone. Ecco, forse è bene cominciarsi a domandare che visione della società hanno persone che ragionano in questi termini.
Sabato 29 giugno, a distanza di una settimana dal Pride nazionale, che quest’anno si è svolto a Palermo, in ben cinque città italiane si sono svolte analoghe manifestazioni. In tutti i Pride cittadini erano presenti i Sindaci. A Palermo oltre al Sindaco, c’erano i Presidenti della Sicilia e della Puglia. Perfino la Presidente della Camera e la Ministra per le pari opportunità hanno partecipato a una delle manifestazioni di apertura del Pride nazionale. Certo siamo ben lontani da quello che è successo a Washington, dove la Cattedrale ha suonato le campane a festa per salutare la decisione della Corte suprema, ma una tale presenza massiccia delle istituzioni alle iniziative dell’orgoglio omosessuale in Italia non si era mai vista. Al termine del Pride di Bologna il Sindaco ha detto che l’apertura al matrimonio egualitario è solo questione di tempo. Di quanto tempo? E soprattutto perché è necessario che passi altro tempo?
Purtroppo, non è solo una questione di convenienza elettorale. Dobbiamo riconoscere che vi è un nodo culturale alla base di questo attendismo della politica che consiste nella difficoltà di dire quello che la Corte Suprema americana ha affermato senza mezzi termini: «Fino a tempi recenti molti cittadini non avevano mai neppure ritenuto possibile che due persone dello stesso sesso potessero aspirare a occupare il medesimo status e la medesima dignità di un uomo e una donna all’interno di un matrimonio». Ecco, la società è cambiata, prendiamone finalmente atto. Oggi le coppie formate da persone dello stesso sesso aspirano alla medesima dignità sociale delle coppie formate da persone di sesso diverso. Quella dignità sociale che è tutt’uno con il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana. Ma come si può sperare nel raggiungimento di questo traguardo quando i nostri politici non hanno neppure le parole per nominare la realtà che li circonda? Fateci caso: neanche il politico più illuminato – nemmeno la Presidente Boldrini – usa l’espressione famiglia parlando delle persone lesbiche e gay e dei loro figli.
Se gli amministratori pubblici, i politici non saranno in grado di rimettere in discussione il loro modo di concepire la famiglia, l’amore, i rapporti tra i sessi, il senso stesso dello scegliere liberamente, senza coazione alcuna, la persona con cui condividere un progetto di vita, sarà quasi del tutto inutile continuare a sviluppare argomenti a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ma se questo non accadrà, ad uscirne sconfitta non sarà una parte della popolazione italiana, ad uscirne sconfitta sarà l’idea stessa di Stato di diritto, giacché la maggioranza parlamentare si sarà arrogato il potere di impedire ad un gruppo sociale minoritario di godere di un diritto fondamentale.