Una lettera “impegnativa” sul cammino delle persone omosessuali
Lettera con risposta di Gianni Geraci tratta da Il Guado, bollettino 68, II, 1999
Una lettera che suscita tante domande sull’amore e la vita di ogni persona omosessuale, a cui fa da contraltare una risposta che vuol fornire qualche chiave di riflessione in più.
«Eccoci qui, tu ed io, e spero che ci sia un terzo in mezzo a noi, il Cristo». Queste parole di un monaco medievale, con cui don Domenico Pezzini comunica il cuore dell’amicizia, rappresentano il movimento che lo porta a curare persone in una condizione particolare: l’omosessualità. «Così uguali, così diversi», viene da ripetere, al termine dell’appassionata lettura del libro Alle porte di Sion da lui introdotto e curato. Cominciano ad essere tanti, i cosiddetti gay che, nella realtà, non corrispondono allo stereotipo dell’immagine diffusa, che è poi una ‘non-immagine’[…].
Il volto del magistero della Chiesa non è presentato nei modi giusti e questo può non fare un bell’effetto su un cattolico gay che, invece, sposa il giudizio riportato a pagina 9, dove «si sentenzia doversi dire a due omosessuali che vivono un rapporto di coppia, che la loro – e qui è citato un articolo di monsignor Carlo Caffarra pubblicato sull’Avvenire del 31-12-88 – è una ‘pseudo-comunione’, al fondo della quale c’è solo la distruzione della persona».
Nel contempo il curatore del libro sembra provare sulla propria pelle il giudizio del teologo, per il quale «la visuale psico-pedagogica attesta che l’attività omosessuale, prima o poi, genera frustrazioni, traumi, depressioni, sensi di inferiorità, di colpa, di rifiuto da parte dei più vicini, della società, di se stessi, di Dio» […] e guarda con simpatia il teologo «che abbia una percezione più avvertita della necessità di combinare ‘principi’ e ‘valori’». Quindi si riconosce che «se la parola spetta agli specialisti, in fondo nessuno è specialista in queste cose».
C’è una nota armonica per i relativi numeri del Catechismo universale della Chiesa cattolica (2357-2359 e qualcosa d’altro), per un cardinale che «non ha paura di usare il termine ‘amore’ per qualificare il rapporto che lega due persone omosessuali». Poi si ricorda che quello stesso cardinale pensa al Signore, che «amava Marta, sua sorella e Lazzaro» (Gv 11.5 ) e si conclude che l’amore di Dio è incondizionato, ma quello umano no, «perché la natura umana è ferita».
Ecco il punto, carissimi fratelli e sorelle in Cristo: «la natura umana è ferita». Ecco farsi avanti la verità che disseta: la dottrina del peccato originale, che ci può portare fino ad una reale immersione nella Misericordia del Padre. « Sbaglieremo spesso – sono parole del cardinale citato – ma l’ideale rimane» […].
Esprimere quello che si vive, quello che si prova a leggere un libro così, non è facile: si è presi da quella che qualcuno ha chiamato ‘sperdutezza’ (si veda: Il senso della nascita, dialogo fra don Luigi Giussani e Giovanni Testori), una ‘sperdutezza’ che viene toccata e rimane segreta. Ma il dovere di ringraziare, eucaristicamente… no, non ce lo dobbiamo dimenticare.
Rendiamo quindi grazie per queste 29 storie e, in unione al sacrificio di Cristo, preghiamolo in ginocchio, in unione con la madre sua di Misericordia, di fare pregustare a tutte le persone la felicità della casa a cui tendiamo e per cui siamo fatti.
Arel
La risposta…
Non so quanti, fra i lettori, riusciranno a riconoscersi nelle parole del nostro interlocutore. Sono però convinto che la nostra vocazione alla ‘diversità’ ci deve aprire alle provocazioni di chi, diverso da noi per formazione e linguaggio, ci interpella a un certo punto con la sua prossimità. Ecco perché ho deciso di pubblicare e di raccogliere le suggestioni di questa lettera che non esito a definire ‘impegnativa’: per l’amico Arel che l’ha scritta e per noi che la stiamo ora leggendo.
In particolare credo che sia opportuno concentrare l’attenzione sulle espressioni che più ci suonano lontane: è dal loro proporsi alla nostra attenzione che possono arrivarci gli insegnamenti più preziosi. Le prenderò quindi in considerazione una per una, commentandole brevemente.
Non credo innanzi tutto che la frase di monsignor Carlo Caffara, citata da don Pezzini, sia felice.
Parlare dell’amore tra due persone omosessuali come di una ‘pseudo-comunione’ può anche essere legittimo (esprime infatti un giudizio di merito che coinvolge le opinioni del giudicante), ma affermare che in fondo a un’esperienza del genere c’è ‘solo la distruzione della persona’ semplicamente non risponde a verità: forse il vescovo di Ferrara si riferiva ad alcuni casi da lui conosciuti personalmente, ma la realtà è molto più articolata e, a fronte di alcuni che vivono la loro esperienza di coppia come un ‘egoismo a due’ ci sono molti che si stanno aiutando vicendevolmente a vivere un amore ‘responsabile’, capace di aprirsi agli altri e di integrarsi nella totalità della vita e, quindi anche nel rapporto con Dio all’interno della Chiesa.
C’è qui, probabilmente, un difetto di ‘intelligenza’ di cui anche gli omosessuali credenti sono responsabili quando si rivolgono ai sacerdoti solo per risolvere i loro laceranti conflitti di coscienza e li dimenticano poi quando si tratta di offrire la propria esperienza per un’azione pastorale che il magistero ha più volte definito auspicabile e che ancora purtroppo non c’è.
Analoghe osservazioni credo vadano fatte quando si parla di «frustrazioni, traumi, depressioni, sensi di inferiorità, di colpa e di rifiuto» causati dall’attività omosessuale. Cosa si intende qui con ‘attività omosessuale?
Io credo che la si confonda con la mancata integrazione della propria omosessualità che, purtroppo è tipica di molti omosessuali (e, quindi, di molti omosessuali credenti): in quel caso è vero che i sensi di colpa diventano lancinanti, è vero che ci sono frustrazioni e traumi, ma la loro causa diretta non è l’omosessualità, quanto l’incapacità che molti dimostrando di saperla integrare con il resto della propria vita: un’incapacità alimentata anche da quei pastori che si lasciano sfuggire con leggerezza certe affermazioni di condanna.
E qui si arriva al cuore della lettera di Arel quando osserva giustamente che ‘la natura umana è ferita’. Come cristiani non possiamo accodarci all’ottimismo imperante di quanti dimenticano che la realtà del peccato, pur non essendo direttamente legata alla nostra natura di uomini ha in essa una componente ‘originale’, che segna tutto ciò che facciamo.
La nostra natura è ferita e solo nel progetto di redenzione che ha portato Gesù sulla croce può trovare una via d’uscita dal dramma che la opprime. Compito primario della Chiesa è quindi quello di annunciare, al di là dei luoghi comuni tipici di ogni epoca, questo evento decisivo per la vita di ciascuno di noi: la morte e la resurrezione di Gesù.
Ma l’annuncio di questo evento risulta credibile nella misura in cui chi lo fa si sente a sua volta ferito e bisognoso del soccorso di Cristo. E da questo punto di vista gli omosessuali sono avvantaggiati dalla loro specifica ‘diversità’. Quante volte la loro esperienza di diversità li ha portati a chiedere al Crocifisso quella liberazione che tutti gli uomini dovrebbero chiedere? Quante volte la loro disperata solitudine li ha portati a chiedere la prossimità di una presenza che solo la misericordia di Dio riesce a generare?
Non credo che sia compito dei nostri pastori infierire con le loro scomuniche sul senso di inutilità che molti omosessuali provano nella loro vita, credo invece che dovrebbero dare una prospettiva a quanti lo vivono, per aiutarli a superarlo, in un itinerario di accettazione che è autentico solo se alimentato da un’intensa vita di preghiera e integrato da una grande passione per i bisogni di chi ci è prossimo.
A quando un’iniziativa dei nostri vescovi (e magari di monsignor Caffara che, nel frattempo, è diventato arcivescovo di Ferrara) per aiutare gli omosessuali in questo difficile cammino? Parlare e non fare nulla, significa compiere un vero e proprio ‘peccato di omissione’, un peccato che è tanto più grave quanto più gravi sono le conseguenze delle cose che non si sono fatte.
Ecco perché io credo che sia molto importante pregare lo Spirito Santo perché dia il coraggio ai vescovi italiani di superare le paure che li attanagliano e di iniziare una seria azione pastorale nei confronti delle persone omosessuali. Probabilmente si discosterà per molti aspetti dal lavoro che facciamo nei nostri gruppi, ma, come ci ha insegnato l’esperienza di questi vent’anni, se si vive un’autentica esperienza di servizio, l’importante è cominciare.
E allora preghiamo! Preghiamo il Padre, che ha creato anche noi omosessuali, di aiutarci ad essere vero lievito nella Chiesa e non altoparlanti che urlano vuoti slogan.
Preghiamo il Figlio che è morto per la nostra salvezza di vincere il nostro disagio e di spingerci a cercare gli altri omosessuali per servirli e non per usarli, per amarli e non per sedurli.
Preghiamo lo Spirito Santo, perche ci guidi in questo nostro difficile cammino e perché dia alla Chiesa il coraggio di ricordarsi un po’ più spesso del fatto che anche noi omosessuali siamo chiamati alla santità.
Gianni Geraci