Una preghiera per Bobby. Una madre davanti al suicidio del suo figlio gay
Introduzione tratta dal libro di Leroy Aarons, Prayers for Bobby: a mother’s coming to terms with the suicide of her gay son* (Una Preghiera per Bobby: una madre si confronta col suicidio del suo figlio gay), HarperCollins Publishers (Stati Uniti), 1995, libera traduzione da Diana
Sono venuto a conoscenza della famiglia Griffith per la prima volta da un articolo del 1989 apparso sul San Francisco Examiner. Il pezzo scritto dalla giornalista Lily Eng faceva parte di una gigantesca serie di articoli durata sedici giorni sui gay e le lesbiche in America. L’Examiner commemorava il ventesimo anniversario della rivolta di Stonewall, considerato la nascita del movimento per i diritti civili dei gay in America. (Lo Stonewall Inn era un bar la cui clientela in una calda notte estiva del 1969 sfidò una squadra di polizia che li attaccava, respingendola con mattoni e calcinacci, attirando in questo modo centinaia di persone in una protesta che spinse all’azione i gay e le lesbiche in tutto il paese).
Rimasi profondamente commosso dalla storia del suicidio di Bobby Griffith, rattristato per come questo ragazzo avesse buttato via la sua vita. L’odio bruciante per se stesso contenuto negli estratti del suo diario era doloroso da sopportare. Il mio istinto era quello di afferrare quel ragazzo che scriveva quelle frasi e gridargli: “No, Bobby! Hai sbagliato tutto. Tu sei a posto. Sono gli altri pazzi d’odio e ignoranti!”
Ma naturalmente era troppo tardi. Incapace di conciliare il suo orientamento sessuale gay con le convinzioni religiose e morali della sua famiglia, Bobby era andato incontro alla morte buttandosi da un cavalcavia nel 1983.
Altri ragazzi gay stanno arrivando al suicidio. Infatti, alcune statistiche sostengono che i suicidi di ragazzi gay si stanno avvicinando ad un livello epidemico. Ciò che ha reso unica la storia della famiglia Griffith non è stato soltanto il resoconto giornaliero di 4 anni di vita raccolti nei diari di Bobby, ma il racconto fatto dai suoi amici sulla madre di Bobby, una casalinga di periferia della classe operaia.
Fra il gruppo di articoli dell’Examiner c’era una intervista di Mary Griffith in cui parlava del fanatismo religioso e della paura dei gay che l’aveva portata a condurre una campagna inarrestabile, perché suo figlio superasse la sua omosessualità. Era troppo concentrata sulle sue credenze profondamente radicate per notare che il suo rifiuto per Bobby stava contribuendo a quell’odio per sé stesso, che sarebbe culminato nella sua morte.
La morte del figlio mise in discussione la maggior parte delle sue credenze basilari. Scriveva: “Guardando indietro, mi rendo conto ora di quanto fosse depravato instillare una falsa colpa nella coscienza di un ragazzo innocente, provocando un’immagine distorta della vita, di Dio, di sé stesso, distruggendone il valore come persona”.
La storia continuava documentando il successivo cambiamento dei sentimenti di Mary, il rifiuto della sua dottrina religiosa e l’inizio della crociata per aiutare a salvare le vite di altri ragazzi/e gay e lesbiche. Ora poteva dire: “E’ una parodia dell’amore di Dio far crescere i ragazzi (gay) pensando che siano il male, con solo una leggera inclinazione verso il bene, convinti che rimarranno tutta la vita non meritevoli dell’amore di Dio.”
Questa straordinaria conversione mi toccò profondamente come la tragica morte di Bobby. Questa donna di scarsa istruzione è stata capace di dare un taglio ad una vita fatta di condizionamenti, di rischiare il rifiuto da parte degli altri credenti per abbracciare degli emarginati. Come ci è riuscita? Mi chiedevo cosa le avesse permesso di andar oltre il suo background per compiere questi atti di coraggio?
Come molti altri gay e lesbiche avevo la mia storia di rifiuto e di odio per me stesso. Fortunatamente non ho mai preso in considerazione il suicidio. Non è mai stato un’opzione per me. Il disprezzo per me stesso mi ha portato in altre direzioni – direzioni non del tutto definitive, ma certamente dannose, dolorose e controproducenti.
Sono sopravvissuto e solo dopo molti anni ho fatto pace con me stesso. Ma la storia dei Griffith mi ha strappato il cuore, in momento in cui stavo intraprendendo una svolta importante nella mia vita.
Quando apparve l’articolo ero editore esecutivo dell’Oakland -Tribune, ed un giornalista di successo la cui omosessualità era nota ai dipendenti. Avevo fatto coming out con loro, con la mia famiglia e con gli amici parecchi anni prima, dopo un lungo periodo di sotterfugi e menzogne per proteggere la mia “immagine” personale e professionale. Mi sentivo a mio agio come gay, ma come giornalista non avevo intenzione di essere coinvolto, ne come un attivista, se non partecipando come osservatore alla parata del Pride.
Nella primavera del 1989 la Società Americana degli Editori, le associazioni professionali dell’industria editoriale decisero per la prima volta di fare un sondaggio fra i giornalisti gay e lesbiche sul loro atteggiamento riguardo alle loro condizioni sul posto di lavoro e sulla copertura delle notizie sugli argomenti gay. Il direttore esecutivo dell’ASNE, Lee Stinnett, mi chiese di coordinare lo studio.
Io accettai con un po’ di trepidazione, sentendo che essere l’autore di questo sondaggio nazionale mi avrebbe in un qualche modo cambiato la vita. Infatti, così avvenne. Nell’aprile del 1990 presentai i risultati del sondaggio a centinaia di editori e durante la presentazione rivelai la mia omosessualità davanti all’assemblea nazionale. Ricordo chiaramente che mentre dicevo: “Come editore e uomo gay sono orgoglioso dell’ASNE per questo sondaggio” una seconda frase mi passava per la mente: “Sono qui gente, sono tutto me stesso, finalmente!”.
Furono pubblicati articoli sui maggiori quotidiani e riviste col titolo “Dirigente fa coming out come gay”. Divenni un punto di riferimento per centinaia di giornalisti gay e lesbiche, la maggior parte di loro che non si erano ancora dichiarati mi sollecitavano a formare un gruppo di supporto. Lo feci creando nell’estate del 1990 l’Associazione Nazionale Giornalisti Gay e Lesbiche, un nome un po’ pretenzioso per un gruppo di sei membri. Ma il momento era quello giusto.
Entro alcuni mesi centinaia di giornalisti tradizionali da tutto il paese si unirono al gruppo. La storia dei gay stava catturando l’attenzione del pubblico e insieme arrivava anche la volontà dei giornalisti gay e lesbiche di farsi sentire. L’NLGJA prosperò, catturando l’attenzione di nuove organizzazioni dell’editoria e in ultima analisi influenzando il modo in cui vengono rappresentati i gay e le lesbiche nella stampa locale e nazionale.
Percepivo un nuovo e più elevato senso di integrazione, un avvicinarsi della mia vita personale e professionale oltre quanto avevo sperimentato fino ad allora. Potevo ancora continuare ad essere un giornalista, ma esserlo senza rinunciare alla mia integrità professionale. Potevo influenzare un cambiamento in nome dei miei fratelli gay e rimanere coerente con i principi di un buon giornalismo.
Nel frattempo, il Tribune aveva avuto dei gravi problemi economici. Presi la decisione di lasciare il giornale dopo 33 anni e dedicarmi all’NLGJA e al sogno della mia vita di essere uno scrittore “serio”.
Ma uno scrittore ha bisogno di un soggetto. A metà del 1991 l’Advocate, la rivista nazionale gay, pubblicò un articolo su Mary Griffith. Josh Boneh, il mio compagno, lo lesse e mi disse: “Perché non scrivere su di lei? È una grande storia. Si adatta a quello che hai in mente. E lei vive proprio qui a Walnut Creek (una cittadina a poche miglia da Oakland).”
Naturalmente! Il suggerimento di Josh mi riportava a questa storia con tutto il suo carico emotivo. Mi misi a cercare una copia dell’articolo dell’Examiner, telefonai a Lily Eng per avere il numero di telefono dei Griffith e subito partii per Walnut Creek.
Io e Mary andammo d’accordo. Sebbene all’inizio fosse timida sentii immediatamente la sua forza e determinazione. Avrebbe voluto scrivere un libro, ma non c’era riuscita. Le chiesi a cosa sperava sarebbe servito questo libro. “Vorrei dare ai ragazzi abbastanza coraggio per continuare la loro vita, disse, finché giungono al punto in cui sono in grado di accettare informazioni reali sulla loro identità sessuale.”
Mary parlava con calma, ma con una certa urgenza. Voleva raggiungere i genitori, gli insegnanti, le Chiese – obiettivi che aveva già in mente a livello regionale. Ma un libro avrebbe potuto diffonderlo a livello nazionale.
Iniziammo una serie di interviste dettagliate per molti mesi. Divenne chiaro che Mary aveva un altro motivo in mente per il libro. Dopo circa un decennio dalla morte di Bobby sentiva ancora il peso della colpa per il suo ruolo nella tragedia. Esprimerlo in un libro perché il mondo ne fosse testimone, sarebbe stato un atto di espiazione.
Mary era dura con se stessa. Mary sembrava rallegrarsi raccontando gli atti stupidi o insensati commessi con Bobby. Li raccontava con lo zelo di un convertito. Mentre li raccontava si stupiva della sua stupidità.
Ma quando conobbi lei ed il resto della famiglia Griffith – il marito di Mary, Bob; suo figlio Ed e le sorelle di Ed, Nancy e Joy – compresi che questa non era una storia di brutale rifiuto, ma di ignoranza. I Griffith sopravvissuti alla tragedia si amavano con un’intensità che poche famiglie provano. Mi divenne chiaro che avevano amato Bobby con la stessa grandezza d’animo, come anche lui li aveva amati.
Molti suicidi gay avvengono fra giovani omosessuali allontanati dalle loro famiglie – perché scacciati o ripudiati. Una delle ironie di questa storia è che i Griffith agivano per amore. Gli mancava l’informazione, la comprensione e la conoscenza su come comportarsi. Si basavano sulle risposte limitate che avevano a loro disposizione. Era come se vivessero in una bolla incapaci di comprendere le conseguenze delle loro azioni. Gli eventi si sono svolti perciò con una tragica ineluttabilità.
Tramite i suoi diari e la sua famiglia, gli amici e i suoi conoscenti sono arrivato a conoscere Bobby come si può conoscere uno che non è più tra noi. Era un’anima tenera fin da piccolo, vulnerabile alle ferite, desideroso di piacere, timido. Nello stesso tempo aveva una forza vitale che si rifletteva nel suo viso aperto, sorridente, da bravo ragazzo americano. Gli piacevano la natura, le cose artistiche, le iperboli comiche, e soprattutto scrivere e nella sua scrittura, per un ragazzo così giovane, già erano presenti elementi di eloquenza e promesse per il futuro.
La deformazione di quella promessa, di quella vita che ho espresso in modo esaustivo, era la parte più penosa pensando a come avrebbe potuto essere in un contesto che lo avesse supportato e accolto.
La psicosi che si verifica spesso all’interno di famiglia quando si parla di omosessualità, è uno dei temi principali di questo libro.
Scavando più a fondo si affermò anche un altro tema. Quanto stavo scoprendo non era soltanto la storia dei pregiudizi di Mary; ma era anche la storia della sua liberazione, di donna adulta di 50 anni. Mary era cresciuta con un’innata insicurezza, era dipendente dall’approvazione di suo marito, di sua madre, della Chiesa. Lo spaventoso impatto della morte di Bobby minò tutti i suoi vecchi preconcetti. Dovette ricominciare da capo. Nel ricreare sé stessa non solo trovò una giustificazione per la vita e la (morte) di Bobby, ma imparò ad avere stima in se stessa.
Lavorando con Mary e scrivendo la storia, pensai alla scena di “Miracle Worker” in cui la giovane Helen Keller ha un furioso accesso di collera e rovescia una brocca d’acqua sul tavolo. La sua insegnante Annie, ignorando le suppliche dei genitori di Helen, la trascina con forza nel cortile e la obbliga a riempire la brocca dalla pompa, ripetendo nello stesso tempo all’infinito, con il linguaggio dei segni, la parola acqua sul palmo della mano di Helen.
Improvvisamente dopo mesi di esercitazione e di incomprensioni Helen ci arrivò. Acqua! Ecco come dire acqua! Le cose hanno parole attaccate le une alle altre, e le parole sono il mezzo per uscire dal tunnel. Helen si trasforma così in modo spontaneo in una farfalla che vede, sente e parla, che esce fuori dalla crisalide. È un momento di grazia suprema.
Questo momento, il trionfo dello spirito umano, è presente in questa storia. Non si tratta soltanto di omosessualità, di religione o di suicidio, benché tutto ruoti su questi argomenti. Si tratta della famiglia, della redenzione. Ma alla fine si tratta della vittoria dello spirito umano che ha trasceso la tragedia.
Ho compreso così che questo era quello di cui ho sempre voluto scrivere.
Leroy Aarons
* Da questo romanzo è stato tratto, nel 2009, il film per la televisione Prayers for Bobby (Una Preghiera per Bobby) che, come il libro, è basato sulla storia vera di Bobby Griffith. Il film, ancora inedito in Italia, è stato interpretato da Sigourney Weaver ed è disponibile in rete sottotitolato in italiano.