Visto da me. Il vescovo Bettazzi all’incontro di Milano con i cristiani omosessuali

Quando avevamo deciso di chiedere a monsignor Bettazzi di venire a parlarci del Concilio Vaticano II qualcuno ha espresso una preoccupazione: «Non c’è il rischio di organizzare un incontro importante in cui però vengono ignorate le difficoltà che molti omosessuali incontrano di fronte a una chiesa che sembra ormai incapace di accogliere e di comprendere l’esperienza di noi omosessuali?».
Quello che è successo sabato ieri ha sicuramente spazzato via questa preoccupazione, perché monsignor Bettazzi ha dato alla nostra diversità un quadro in cui trovare un suo significato, parlandoci appunto del Concilio Vaticano II.
Un’esperienza che la grande capacità di mediazione di un altro protagonista come Giuseppe Dossetti ha spinto nella direzione di quell’«aggiornamento» che il Papa stesso aveva auspicato.
Ha iniziato parlandoci della Gaudium et Spes, la costituzione con cui la chiesa sceglieva in maniera solenne di non avere più come unici interlocutori solo i cattolici, bensì tutti gli uomini e tutte le donne «di buona volontà». In realtà c’era un precedente importante costituito dall’ultima enciclica di Giovanni XXIII, quella Pacem in terris in cui, per la prima volta, il papa sceglieva di rivolgersi all’intera umanità, spinto dall’emergenza collegata ai rischi di un conflitto planetario. Per la prima volta, in quel documento, il magistero della chiesa cattolica sceglieva di rivolgersi non solo a quanti si sentono parte della chiesa stessa, ma anche ai lontani, interpellandoli in nome della loro umanità.
Questa scelta ha segnato in maniera definitiva il magistero stesso: non a caso, da allora, non c’è un’enciclica in cui questa scelta di considerare tutti gli uomini degli interlocutori non venga fatta.
La dottrina della salvezza definita con chiarezza dal Concilio di Trento (con il Decreto sulla giustificazione, approvato nel 1547) trovava finalmente la sua collocazione all’interno di un’ecclesiologia compiuta in cui non è l’adesione formale al cattolicesimo la condizione necessaria per la salvezza, ma è la responsabilità nel farsi carico della vocazione con cui Dio ha chiamato all’esistenza ciascuno di noi.
«Chi crede in Cristo sarà salvato!» Questo è il titolo di un libro che lo stesso Bettazzi ha pubblicato qualche anno fa riprendendo un versetto del Vangelo di Giovanni (3,15). Durante l’incontro lo stesso Bettazzi ci ha fatto osservare come quello stesso versetto possa essere letto in due modi molti diversi: il primo («Chi crede in Cristo, sarà salvato»), che mette l’accento sull’adesione di fede a Cristo, vede nell’adesione alla Chiesa l’unica strada per la salvezza; il secondo («Chi crede, in Cristo sarà salvato») che mette invece l’accento sulla serietà con cui noi rispondiamo alla nostra vocazione umana,cred vivendola con la fedeltà di chi «crede», di chi cioè si assume la responsabilità di tener conto, nelle sue scelte, di quelle che sono le esigenze e i bisogni di quanti condividono la sua umanità.
Il Concilio, con la Gaudium et Spes ha fatto questa operazione di ricomprensione di questo brano, mettendo l’accento sulla buona volontà degli uomini piuttosto che sulla loro adesione formale alla dottrina cattolica: la cosa importante diventa così il concorrere al bene comune, anche quando non si ha coscienza del fatto che questo concorrere al bene comune non è altro che l’adesione al compito che Dio ci ha assegnato e che Gesù ci ha rivelato.
Letta alla luce di questo messaggio che monsignor Bettazzi ci ha voluto ricordare con forza, la condizione omosessuale acquista davvero un significato radicalmente nuovo che spazza via le polemiche che, in questi ultimi giorni, hanno visto altri vescovi emeriti fare delle affermazioni che (come quelle di monsignor Scapizzi, vescovo emerito di Pistoia, o di monsignor Babini, vescovo emerito di Grosseto) sembrano avere come unico obiettivo quello di spingere gli omosessuali verso la disperazione di chi non si aspetta più dalla chiesa una parola di speranza.
Solo chi si dimentica dell’insegnamento ribadito dal Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes può pensare che l’omosessualità sia in se stessa un motivo che può allontanare le persone dalla Grazia e che si possa, dall’esterno, giudicare lo stato di Grazia di una persona che non nasconde la propria omosessualità, negandole apriori l’accesso ai Sacramenti.
Interrogato su quanto hanno detto i due vescovi citati sopra, monsignor Bettazzi ci ha esortato a scrivere a questi suoi confratelli nell’episcopato per aiutarli a comprendere meglio la condizione degli omosessuali credenti, favorendo in loro una rilettura della nostra esperienza di omosessuali meno appesantita da certi luoghi comuni e da certi pregiudizi che, purtroppo, circolano all’interno della chiesa stessa.
La seconda costituzione che monsignor Bettazzi ci ha proposto è stata la Sacrosactum concilium in cui veniva recuperata la centralità della liturgia nella vita non solo della chiesa, ma anche nella vita dei singoli credenti.
Come non ricordare qui le parole con cui il cardinal Martini ha detto di voler rispondere alle difficoltà che vede nella Chiesa? Come dimenticare la sua esortazione a ricorrere con fiducia alla preghiera di intercessione per aiutare questa Chiesa a vincere la paura per andare incontro agli uomini accogliendo innanzi tutto la loro umanità senza pretendere di inscatolarla in schemi pregiudiziali che vengono meno a quello che san Tommaso raccomandava quando parlava di un «principio di realtà».
Letta in questo modo tutta la vita liturgica della Chiesa può davvero diventare un’occasione, per noi omosessuali, di chiedere e di realizzare, per quello che ci è dato, un rapporto diverso tra istituzione ecclesiastica e vissuto degli omosessuali. Letta in questo modo, questa stessa vita liturgica, può diventare per ciascuno di noi, uno strumento di liberazione formidabile che solo chi è senza Fede o senza Prudenza può pensare di scoraggiare.
Verrebbe da chiedersi se vescovi come monsignor Babini o come monsignor Scatizzi siano carenti più della virtù teologale della Fede o della virtù cardinale della Prudenza. Di certo monsignor Bettazzi, parlandoci della costituzione che il concilio ha dedicato alla liturgia, ha dimostrare di avere in abbondanza sia la prima che la seconda virtù, perché ci ha esortato a non abbandonare la dimensione della preghiera nelle varie forme con cui ci è stata riproposta dalla chiesa che l’ha ripensata alla luce del Concilio.
La terza costituzione a cui monsignor Bettazzi ha voluto dedicare qualche riflessione è stata infine la Dei Verbum, invitandoci a non considerare la Parola di Dio come qualche cosa di estraneo alle nostre vite, ma a riprenderla in mano con la confidenza di chi sa che, in quei testi, c’è una «lettera che Dio ha scritto a ciascuno di noi».
Ancora una volta, le riflessioni di monsignor Bettazzi ci spingono nella direzione di un ascolto attento e responsabile del testo biblico per arrivare a quel discernimento richiesto da tutte le situazioni specifiche.
Ascoltando le parole di monsignor Bettazzi ci siamo così accorti che la nostra storia di omosessuali credenti si inserisce, come la storia di tutti gli uomini e come la storia di ciascun uomo, in un percorso di cui il Concilio stesso non è stato altro che un capitolo particolarmente significativo e particolarmente importante: la storia di un Dio che si comunica e si racconta all’uomo e che, usando gli strumenti che l’uomo può intendere, chiama l’umanità intera alla salvezza.
Una storia in cui nessuno di noi deve più sentirsi come l’utilizzatore finale di un servizio che altri gli confezionano, ma deve sentirsi come il protagonista della storia d’amore con cui Dio stesso, in Gesù Cristo, in modo mirabile l’ha chiamato all’esistenza e, in modo ancora più mirabile, l’ha chiamato alla salvezza.
* Testo ripreso da Adista Notizie n. 14 del 20 Febbraio 2010