Come stabilire una giusta relazione con Dio (Lc 18:9-14)
Riflessioni bibliche* di Michael Joseph Brown, Bridgette D. Young e Shively T.J. Smith tratte dal progetto Out in Scripture (Stati Uniti), del gennaio 2008, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
La nostra lettura tratta dal vangelo a prima vista è facile da comprendere. La parabola del fariseo e del pubblicano in Luca 18:9-14 è la preferita di chi vuole castigare gli altri per il loro senso di giustificazione.
La parabola indica chi dovrebbe essere umiliato e chi esaltato, ma dice anche altro. Incastonato nel racconto c’è un messaggio spesso trascurato: come avere una relazione autentica con Dio.
Il fariseo descritto nella parabola non potrebbe essere più diverso dal pubblicano: è un individuo profondamente religioso, coinvolto nelle pratiche della sua fede. Bisogna sapere che il giudaismo, a differenza di certe concezioni del cristianesimo, è la religione dell’amorevole osservanza: assolvere a specifiche pratiche esprime le intenzioni del cuore e la fedeltà.
Nel giudaismo tre pratiche erano (e sono) considerate di capitale importanza: il digiuno, l’elemosina e la preghiera; ecco perché il fariseo vi pone una speciale enfasi: “Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo” (Luca 18:12). Notare che parla di digiuno ed elemosina mentre prega; per lui il senso sta nel fare ciò che ci si aspetta da lui per vivere una vita devota, e per questo si considera giusto o giustificato.
– Che ruolo ha la Bibbia nella vostra vita? È la storia della nostra fede, una guida per vivere e amare o significa qualcos’altro per voi?
Il concetto di “essere giusti” nel Nuovo Testamento rimanda alla relazione tra l’individuo e Dio. Quando una persona è designata come “giusta” significa che è nella giusta relazione con Dio. Il modo in cui questa relazione è concepita varia alquanto nel Nuovo Testamento, ma in ogni caso gli autori affermano che è Dio che dà inizio alla relazione. La stessa cosa vale per il giudaismo.
Le pratiche descritte in questo passo sono perciò delle risposte alla grazia di Dio, non un prerequisito per tale grazia. In questo caso il fariseo sarebbe giusto – nella giusta relazione con Dio – prima di compiere le azioni descritte nel testo.
– Come possiamo rispondere alla grazia di Dio per pura gratitudine e non per avidità, per la speranza di essere esaltati o di ottenere qualcosa in cambio?
Il problema della preghiera del fariseo esce allo scoperto nel versetto 11: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.” Questa preghiera è simile ad altre della letteratura rabbinica. Non dobbiamo tuttavia pensare che gli ebrei credano di essere superiori agli altri. Ringraziare Dio per una posizione sociale favorevole non implica un senso di superiorità o il disprezzare gli altri (versetto 9).
A dire il vero gli ebrei credono che le circostanze favorevoli forniscano all’individuo l’opportunità di assistere i meno fortunati: essere benedetti per essere una benedizione. Il fariseo del nostro passo scambia queste circostanze con un sistema di caste voluto da Dio. Nella sua mente, le persone devote come lui sono parte del “gruppetto” di Dio, da cui tutti gli altri sono esclusi. In altre parole, sorprendentemente il tema che troviamo in questa parabola è l’inclusione.
Notate che il fariseo è solo mentre prega (versetto 11). Si separa fisicamente dagli altri perché si ritiene migliore di loro. Quante volte lesbiche, gay, bisessuali e transgender hanno avuto a che fare con quell’esclusivismo autogiustificatorio che separa dagli altri credenti? Possiamo udire gli echi di questa esclusione anche nell’addio di Paolo in 2 Timoteo 4:6-8, 16-18.
Magari possiamo mostrare un po’ più di simpatia a Paolo mentre racconta le sue dure esperienze di rifiuto e opposizione, ma non dimentichiamo che persino lui si identifica, nel libro degli Atti, in questo modo: “Io sono un fariseo, figlio di farisei…” (Atti 23:6) mentre affronta i suoi oppositori, l’establishment religioso e altri farisei.
Nella seconda lettera a Timoteo Paolo sostiene che gli spetta “la corona di giustizia” perché ha combattuto la buona battaglia e conservato la fede. È facile puntare il dito verso chi si innalza al di sopra degli altri perché si ritiene migliore essendo impegnato nelle “buone pratiche”.
Cosa dire di chi sente di meritare una ricompensa, o perlomeno un riconoscimento divino, a causa di prolungate sofferenze o esclusione? Si meritano di più o di meno il favore di Dio per le loro azioni? Questi testi invitano il lettore ad andare oltre il semplicistico sistema dei sacri debiti e crediti e a esaminare seriamente la giustizia quale mezzo per valutare un’autentica relazione con Dio.
– Che significato ha la giustizia per voi e la vostra comunità? Che effetto ha la vostra concezione della giustizia su chi non fa direttamente parte del vostro gruppo? In che modo chi sta al di fuori della vostra comunità esprime fedeltà a Dio e giustizia?
L’elusivo messaggio della nostra parabola è che facciamo tutti parte del gruppo di Dio. Alcuni devono essere umiliati e altri esaltati, ma nessuno è escluso. Gioele 2:23-3:5 riconosce esplicitamente che la giustizia è una iniziativa divina di cui tutti gli esseri umani possono godere, indipendentemente dalla classe sociale, dalla razza, dall’orientamento sessuale, dal genere o da altri fattori. In Gioele Dio promette che non permetterà a nessuno di provare vergogna e che “ogni uomo” farà parte della sua comunità (3:1-2).
La nostra preghiera
Dio, nostro Difensore
aprici al movimento del tuo Spirito.
Permettici di vedere noi stessi
e chi è diverso da noi come parte di te e del tuo popolo.
Aiutaci a crescere nella conoscenza e nella consapevolezza
del tuo invito divino all’alleanza con te
e aiutaci a disfarci
del pregiudizio, della paura, del rifiuto e del dolore
che ci separano dal tuo amore
sconfinato e incondizionato.
O Dio, ascolta la nostra preghiera.
Amen
* I passi biblici sono tratti dalla Bibbia di Gerusalemme/CEI
Testo originale: Human Rights Campaign