La lotta per la vita delle persone LGBT ad Haiti
Articolo di Delphine Bauer pubblicato sul sito 360° (Svizzera) il 2 gennaio 2016, liberamente tradotto da Marco Galvagno
Non ci sono leggi contro l’omosessualità a Haiti, ma essere gay pone seri problemi: segregazione, violenze e rifiuti. “Recentemente ho ricevuto minacce di morte, che dicevano che ci avrebbero bruciato e ammazzato. Era una lista di nomi di omosessuali bersaglio, fatta da persone che erano ben informate”. Nell’ufficio della sua associazione Focalis che ha sede a Port-au-Prince, Marjory Lafontant lancia una bomba, ma con tono distaccato: quello di una militante troppo abituata a subire questo genere di violenze.
Marjory è lesbica, una lesbica che accetta se stessa e che prende la parola nei media di Haiti, il che è ancora peggio: Marjory è divenuta un bersaglio per gli omofobi. Quarantenne, i lunghi dreadlock raccolti, conosce bene lo stigma legato al fatto di essere una minoranza sessuale: “Quando ho fatto coming out ho perso quasi tutti gli amici. Oggi non ne ho più” spiega triste. Subisce insulti per strada ogni giorno. Suo figlio, che ha avuto con un uomo di cui ha perso le tracce, è stato picchiato per essere figlio di una lesbica. Da allora studia negli Stati Uniti: le si spezza il cuore, ma preferisce che sia lontano, al sicuro. Ecco la quotidianità per un buon numero di omosessuali, in questo paese dei Caraibi, che da duecento anni è protagonista di una storia movimentata e persino tragica.
12 gennaio 2010
Se esiste un avvenimento che ha travolto la comunità LGBT è il terremoto del gennaio 2010: tutto è peggiorato, dopo. Quel giorno non solo 250.000 haitiani sono morti e il paese è stato lasciato esangue, traumatizzato, ma anche le maschere sono cadute: “Nel campo profughi hanno visto quelle che dormivano con la propria compagna nelle tende, questo ha creato loro enormi problemi” ricorda Marjory. Le aggressioni sono aumentate, i pregiudizi che sostengono che i gay avessero scatenato l’ira di Dio e che il terremoto fosse colpa loro hanno fatto peggiorare le loro condizioni di vita: “Mentre eravamo nell’emergenza, alcuni hanno rifiutato di dar da mangiare alle lesbiche”. Marjory rievoca anche gli stupri collettivi di cui sono state vittime alcune di loro: “Gli uomini volevano ricordare loro che hanno bisogno di un sesso maschile”, analizza la militante.
Inorridita, ha deciso di creare un’associazione, Facdis, che contribuisca all’uguaglianza dei diritti e sensibilizzi la gente alla causa omosessuale sul piano sociale e medico. Da cinque anni fa proseliti, dai pochi membri iniziali l’organizzazione ne conta oggi più di 800. Stessa musica presso l’associazione Kouraj, coraggio in creolo, poiché di coraggio ne serve un bel po’ per essere omosessuali alla luce del sole nella società haitiana. Fondata da Charlot Jeudy, è la prima associazione di difesa delle persone LGBT a Haiti. L’espressione, però non piace a Charlot, che preferisce chiamarla la società M. Questa M designa gay, lebiche, transgender e bisex: gay infatti si dice Masisi, lesbica Madwin, transgender Makomer e bisex Mix. Pensa che queste parole specificamente haitiane siano più adatte per rivolgersi ai suoi connazionali. Come Marjory, Charlot ritiene che il terremoto abbia catalizzato l’omofobia: “Con l’arrivo massiccio degli occidentali sono arrivati anche gli evangelici americani, che hanno sostenuto che l’omosessualità fosse un peccato e che noi fossimo il diavolo. La loro visione ha fatto peggiorare le cose agli occhi degli haitiani”. Ferocemente attaccato al suo paese è lì, nel suo campo, che Charlot ha deciso di agire: “Non sono di passaggio” ribatte facendo riferimento alla diaspora, così numerosa negli Stati Uniti, in Canada, in Europa, sia per motivi politici che economici. “Con la prima associazione Zamis Zamis organizzavamo una festa tra noi ogni anno ed era l’unico momento in cui ci sentissimo davvero noi stessi, in un’atmosfera di festa, per uscire dall’asprezza della vita quotidiana” spiega Charlot. Con le tensioni dovute al sisma ha rilanciato l’associazione, stavolta per lottare contro ogni forma di discriminazione. “Sono un gay dichiarato da sempre” dichiara il ragazzo dal viso gioviale.
Charlot proveniene da Martissant, un quartiere caldo di Port au Prince, ed è un ragazzo commovente, che si lascia trasportare facilmente quando parla dei diritti dei gay e rammenta le ingiustizie patite. “In questo quartiere in cui mancava persino l’acqua, in cui le gang imperversavano e gli scontri armati erano all’ordine del giorno, mi sono sempre impegnato nel sociale per cercare di risanare il quartiere e ottenere l’elettricità”, racconta.
La famiglia non gli ha mai fatto domande sul suo orientamento sessuale, ma narra un episodio, avvenuto, in quinta superiore: “Volevo diventare rappresentante di classe, mi sono candidato, corrispondevo a tutti i requisiti richiesti, ma i miei compagni mi hanno fatto capire che ero troppo effeminato, quindi non potevo rappresentarli”.
Si succedono altri ricordi, come il ragazzino che si rifiuta di sedere accanto a lui o le offese del suo migliore amico quando lo è venuto a sapere, e velano il buon umore del ragazzo. Anche Marjory ricorda l’infanzia in cui, senza bisogno di dare spiegazioni, si sentiva più a suo agio in jeans e scarpette da ginnastica che con la gonna, contravvenendo così alle rigide norme di genere sull’abbigliamento della società haitiana.
Il silenzio delle autorità
La sede dell’associazione Facdis è un posto volutamente molto discreto. Una squadra di vigilantes staziona sul posto per proteggere i soci. Le donne lesbiche, bisex e transgender possono venire il venerdì in cerca di aiuto e ascolto, a ricevere consigli o ascoltare le esperienze dei membri dell’associazione. “Essere una lesbica nella nostra società è molto difficile, spesso sono costrette ad avere un uomo nella loro vita, siamo in un paese povero, bisogna assicurarsi la pagnotta” analizza Marjory.
Da qui è nata la necessità di guadagnare una maggiore autonomia grazie alla formazione professionale, che ha consentito a varie aderenti dell’associazione di diventare estetiste, meccaniche o di lavorare negli uffici: “Possono così provvedere al proprio sostentamento” si rallegra Marjory.
Anche i membri di Kouraj hanno ricevuto minacce di morte. La loro sede è stata attaccata il 21 novembre 2013: tre uomini armati hanno saccheggiato l’ufficio e bastonato i presenti. L’attacco si è ripetuto nel 2014. Da allora, la nuova sede è molto discreta e il suo indirizzo viene divulgato con parsimonia: “Le minacce? Su Twitter e Facebook ne riceviamo ogni giorno”: Charlot non si stupisce più. Johnny, 26 anni, ex membro di Kouraj che ha fondato l’associazione dei giovani combattenti contro le discriminazioni e le stigmatizzazioni (AJCCDS), sostiene di essere stato picchiato e stuprato in quanto gay. L’atteggiamento dei poliziotti? L’indifferenza. “Quando sono andato a sporgere denuncia i poliziotti hanno ribattuto che non avevo il diritto di parlare”, spiega Johnny, la cui associazione difende anche bambini di strada e le persone di entrambi i sessi che si prostituiscono. Laureato in economia, si rammarica di essere stato stigmatizzato sul lavoro: “Da quando ho fatto coming out nessuno ha più voluto assumermi”; triste constatazione di una società che fa orecchie da mercante. L’atteggiamento dei giudici? Marjory ricorda con tristezza la vicenda di un’amica originaria di Cap-Haïtien, nel nord del Paese: è stata picchiata a morte dal marito nel momento in cui ha scoperto il suo orientamento sessuale. Quando si è presentata davanti al giudice per ottenere giustizia, questi ha detto “Ma lei è il genere di persona che difende gli omosessuali? Lei è una delinquente, una vagabonda, signora”. Offese che l’hanno spinta a spinta a continuare ancora di più la lotta. Alcuni l’hanno soprannominata la Coraggiosa, e hanno ragione.
Ma infine, perché ad Haiti l’omosessualità suscita una tale ondata di odio? “Perché viene vista come una perversione e va contro i principii della famiglia” analizza Charlot Jeudy. Ma è anche una società profondamente ipocrita, dato che solo il 18% degli haitiani si sposa, secondo il rapporto EMMUS (inchiesta su mortalità, morbosità e utilizzo dei servizi). Marjory accenna a tante persone che conducono doppie vite per rispetto delle convenzioni sociali. Il tema, sia in politica che nella società civile, rimane un tabù. Prova ne è che durante il primo turno delle elezioni presidenziali, il 25 ottobre scorso, nessuno dei candidati ha menzionato il tema.
E Steven Benoit, l’unico ad aver accennato al matrimonio per i gay, si è bruciato ogni chance di accedere alla presidenza per aver promosso un progetto di legge troppo moderno per la mentalità del Paese. Lui stesso ha dovuto negare di essere gay e ha fatto marcia indietro sulla legge. Non bisogna far altro che ricordarsi le manifestazioni nate quando la Francia, paese fratello e allo stesso tempo nemico, ha approvato il progetto di legge sul matrimonio omosessuale: la gente per strada non sfilava contro il progetto del matrimonio, bensì contro l’omosessualità stessa.
Legge del silenzio
Stephenson, 28 anni è un ragazzo, alto, snello e affabile. È uno dei membri fondatori di Kouraj ed ha attraversato fasi di sconforto molto dure, durante le quali ha anche pensato al suicidio: “Ma il giorno in cui pensavo di metterlo in pratica è avvenuto il terremoto. Sono sopravvissuto, allora ho pensato ‘il Signore veglia su di me, non è ancora giunta la mia ora’”.
Questo gli ha dato molta forza per impegnarsi a far sì che altri giovani non vivessero ciò che aveva vissuto lui. Il ragazzo, che è anche un hungan, cioè un sacerdote vudù, riconosce che i seguaci del vudù sono più aperti dei cristiani, soprattutto dei protestanti: “Durante le cerimonie accettiamo tutti, indipendentemente dall’orientamento sessuale, dall’atteggiamento e dall’abbigliamento. Si dice anche che gli spiriti vudù, i loa, siano alla base di questo orientamento sessuale, ma senza giudicare”. Un’esperienza opposta, la sua, a quella di Charlot, che ricorda di aver cercato di lottare contro il suo orientamento sessuale: “Andavo in chiesa e pregavo di non provare più tutto questo”. Poi, dopo molti anni, alla fine si è accettato così com’è. Il vudù lo permette molto di più del cristianesimo.
Ma gli spazi di libertà sono rari ad Haiti. “L’unico bar gay a Port-au-Prince ha cambiato gestione e anche politica. Per incontrarsi ci sono alcuni alberghi, ma sono ambienti sordidi. Se no, bisogna andare di sera nelle stradine” conferma Johnny. Sono luoghi in cui il sesso non è sicuro in termini di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, ma sono anche pericolosi in generale. Comunque, si calcola che il 19% dei gay e bisex haitiani sia sieropositivo, contro una percentuale globale del 2% della popolazione haitiana: “I gay non hanno preservativi e non osano chiederli alle persone amiche per paura di essere giudicati”, precisa Johnny. “Quanto ai social network, se hanno potuto cambiare lo scenario degli incontri nei Paesi in cui Internet è diffuso, qua ad Haiti le persone che hanno accesso a Badoo e Facebook sono rare.”
Anche se Marjory si chiede dove questa lotta li condurrà, Johnny vuole mandare i membri dell’associazione all’estero, in modo da ricevere consigli da parte delle associazioni straniere e che vedano i loro pregi e difetti.
Charlot e Marjory sono decisi a battersi fino all’ultimo respiro per ottenere più giustizia. Il figlio di Marjory vuole laurearsi in giurisprudenza per difendere le minoranze sessuali: “Mi dice ‘Sono fiero di te, ti accetto come sei’” dichiara emozionata. La lotta continua, il cambio della guardia è in buone mani.
Testo originale: Homos en Haïti, une lutte sans merci