In fuga a nord di Beirut. La lunga agonia dei gay siriani
Articolo di Dan McDougall pubblicato sul periodico The Sunday Times (Gran Bretagna) il 13 settembre 2015, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
In piena estate i campi di Arida si stendono a ondate verso il Mediterraneo distante come una trapunta a quadrettoni. Seguendo i contorni delle collinette, un gruppetto di giovani Arabi imbronciati scivolano dentro e fuori tra fattorie derelitte e minareti in rovina, crivellati di proiettili. Dietro di loro si trova, letteralmente, la via per Damasco. I rifugiati hanno approfittato degli stretti margini tra gli unici due valichi di confine ufficialmente lasciati aperti tra la Siria e il mare.
La catena del monte Libano è da molto tempo il più crudele dei confini. Chi in questo momento la sta attraversando teme per la propria vita. La maggior parte sono giovani che, grazie a Dio, sono abbastanza in forma per scivolare lestamente tra i posti di blocco. Alcuni di loro sono gay: hanno cominciato questo viaggio senza sapere se dall’altra parte del confine, in Libano, troveranno protezione o ulteriori persecuzioni. È un rischio al quale sono preparati.
Incontro Halim, attivista per i diritti umani, in un affollato bar del centro di Beirut: “Secondo me, essere gay in Siria non potrebbe essere peggio di come è oggi. Lì non conosci il tuo nemico. Vedi le persone con cui hai fatto sesso occasionale che vengono acciuffate per strada e ti chiedi se riusciranno ad arrivare a te. Gli amanti che aggrediscono gli amanti. Tra l’altro, non è solo questione di Isis. Se sei gay, hai tanti nemici pronti a perseguitarti: il governo, l’Isis, al-Nusra (la sezione siriana di al-Qaida). Per non parlare della tua famiglia allargata: loro sono spesso il nemico numero uno”.
Sul tavolo di fronte a noi sta un caotico raccoglitore ad anelli che contiene i dettagli delle torture inflitte agli uomini gay in Siria. C’è per esempio lo “shabeh”, che si traduce più o meno come “il fantasma” e che consiste nel legare le braccia della vittima dietro la schiena e usarle per sollevare per aria il corpo: la fortissima pressione esercitata sulle clavicole fa spesso sì che queste saltino. Altri uomini accusati di essere gay, sequestrati durante la notte dagli agenti del presidente Assad, hanno riferito di essere stati messi in mezzo a grossi pneumatici, senza possibilità di reagire, poi torturati con elettrodi e sbarre d’acciaio.
Un adolescente di Homs testimonia, nella sua grafia filiforme, come un membro della Guardia Repubblicana gli abbia schiacciato i testicoli con un martello. Tuttavia, per i gay che fuggono dalla Siria, uscire allo scoperto in Libano non è una buona idea: attualmente è il Paese con la più alta percentuale di rifugiati al mondo, con i siriani che costituiscono un quarto della popolazione. “Conosciamo centinaia, migliaia di rifugiati LGBT che stanno arrivando qui, ma se cominciassimo a contarci non sappiamo cosa potrebbe accadere a noi e a loro. È meglio passare inosservati. Il pregiudizio nei confronti di gay e lesbiche non si ferma al confine: anche qui c’è il rischio di essere arrestati e subire abusi.”
Più tardi, ci sediamo in un caffè che sta chiudendo per la notte. Continuiamo a sorseggiare caffè nero e forte esaminando una mappa degli itinerari di confine. Halim fa partire un video sul suo tablet. Mezzibusti arabi cominciano a parlare a perdifiato mentre mostrano le immagini al rallentatore di un boia mascherato dell’Isis che tiene in mano quella che sembra una lucente scimitarra. Davanti a lui, inginocchiati nella polvere, quattro anime condannate, accusate di sodomia. Compare un uomo anziano, un giudice.
La sua faccia non mi è nuova: l’ho già visto in qualche filmato dell’Isis. Il giudice prende il microfono e legge alla folla alcune affermazioni distorte tratte dal Corano: il destino dei quattro è segnato. Rimango incollato allo schermo. Mi aspetto che la telecamera si distolga dall’esecuzione, ma questo non avviene: una testa rotola nella polvere, poi una seconda e una terza. Fontane di sangue zampillano dal collo degli uomini. Do al tablet un riluttante sguardo finale: la telecamera si volge verso la folla. Non urla più verso i corpi, se ne sta andando, annoiata e traumatizzata al tempo stesso.
Negli ultimi mesi io e il fotografo Robin Hammond abbiamo intervistato uomini gay in Africa e Medio Oriente. La loro narrazione rivela un grande dolore e una sofferenza disperata. È chiaro che qui in Medio Oriente il tabù contro il sesso omosessuale si sta rafforzando, non indebolendo, e una versione corrotta dell’islam è al cuore stesso di questo odio.
L’omosessualità è legale nella Cisgiordania controllata dall’Autorità Palestinese ma non a Gaza, controllata da Hamas. Nei quasi cinquanta Paesi a maggioranza islamica esistono sanzioni penali per le relazioni sessuali consensuali con un adulto dello stesso sesso. Ma nelle regioni della Siria e dell’Iraq del nord controllate dall’Isis la persecuzione di gay e lesbiche ha raggiunto un ulteriore livello di malvagità.
Ci incontriamo al calar della sera in un edificio malmesso nella periferia sud di Beirut: vi abitano quattro gay siriani. I nascondigli si assomigliano tutti. Ci trovi sempre dei televisori rotti. Ti viene sempre offerto tè nero forte. Pochi mobili, tende stracciate. Tappeti consumati sotto bassi tavolini. Senza eccezioni, le sigarette vengono passate dall’uno all’altro per calmare i nervi. Un laptop Toshiba vecchio e malmesso sta al centro dell’appartamento, fornito di una sola camera da letto.
Un altro filmato viene mostrato a ciclo continuo. Un bell’uomo di mezza età dalla barba grigia viene tenuto con le mani legate e appeso per le caviglie da un edificio di dieci piani dai delinquenti dell’Isis, vestiti con giacche di pelle e lunghe tuniche blu. L’uomo viene fatto penzolare piagnucolante per diversi minuti prima di crollare sul cemento 30 metri più in basso. Al momento dell’impatto la folla ululante, nella quale scorgo dei bambini, esulta e ride. Come negli analoghi casi di omicidio di presunti gay per mano dell’Isis, la vittima sopravvive al volo e si contorce nella polvere prima di essere lapidata a morte dalla folla assetata di sangue.
L’Isis fornisce gentilmente sassi puntuti in piccole pile a portata di mano. “Stanno mostrando il suo cellulare come prova” dice Sami, omosessuale di poco più di trent’anni proveniente da Al-Raqqah, cuore dello Stato Islamico nel nord della Siria: “Lo usano per giustificare l’esecuzione. I media sociali stanno uccidendo i nostri fratelli. Ora, la prima cosa che l’Isis chiede ai posti di blocco è di far vedere il cellulare. Se trovano qualcosa che ti collega a un altro uomo – fotografie, il profilo Facebook, un messaggio che non sei in grado di spiegare, qualsiasi cosa – allora sei morto. Per te è finita”.
Per spiegare meglio, Sami apre Manjam, che descrive come una popolare applicazione gay “buona per cuccare”, adottata dalla Turchia alla Siria e Paesi confinanti: “Guarda un po’.
Nel 2013 c’erano forse alcune migliaia di Siriani attivi su Manjam. Il regime generalmente guardava da un’altra parte, perlomeno al nord”. Sami ora conta gli account attivi in Siria e trova 26 profili ad Al-Raqqah: “Quante di queste 26 persone sono braccate dall’Isis? Chi vorrebbe essere così desideroso di morire da usare un’applicazione gay ad Al-Raqqah?”
In verità, anche i governi della regione utilizzano la sorveglianza digitale per prendere gli omosessuali in trappola, imprigionarli e abusarli. Negli Stati in cui l’omosessualità è fuorilegge la polizia spesso utilizza i siti di incontri per arrestare i gay, come denuncia la Electronic Frontier Foundation, una ONG che studia l’utilizzo delle tecnologie nelle violazioni dei diritti umani.
Un trentenne è stato recentemente arrestato in Arabia Saudita dopo aver chiesto appuntamenti ad alcuni uomini su Facebook. Tutti, in questa squallida stanza, ammettono che non è stato l’Isis a portare l’omofobia in Siria. Gli omosessuali sono da tempo bersaglio dei “delitti d’onore” in quanto sono considerati una disgrazia per le loro famiglie. Altri venivano incarcerati. La guerra civile ha però intensificato le persecuzioni. Al centro del piano dell’Isis di eliminare la comunità LGBT sta la Hisbah (che vuol dire pressappoco “essere responsabile”), la polizia religiosa che si ispira alla dottrina islamica. “L’Isis vuole che tutto il mondo musulmano sappia che giustizia i gay perché ciò rafforza le sue credenziali di difensore della sharia” dice Ryan Mauro, analista del Clarion Project, un gruppo che combatte l’estremismo: “C’è un diffuso sentimento di ostilità all’omosessualità nel mondo musulmano a causa della credenza che la Sharia imponga l’esecuzione dei gay”.
Il linguaggio della persecuzione è universale. Per dimostrarmelo, Sami recita una descrizione delle “caratteristiche gay” diffuse dai pamphlet dell’Isis ad Al-Raqqah, che in seguito sono state scoperte provenire da un giornale controllato dal governo siriano: “Un omosessuale può avere il polso sciolto, un modo particolare di muovere le dita, di sedere e di accavallare le gambe alla maniera delle donne, un interesse nei pettegolezzi e nel sentito dire. Questi sono alcuni dei tratti distintivi degli omosessuali”.
Conoscere il nemico è sempre più difficile per i gay. Corre voce che l’Isis dispieghi agenti sotto copertura, provenienti dai ranghi della sua polizia religiosa, che hanno il compito di prendere in trappola chi viene accusato da qualcuno di essere gay. Elmo, un medico che ora lavora in un call center a Beirut, è fuggito dalla sua città siriana in mano all’Isis dopo che un membro della sua famiglia, un cugino che cercava di farsi notare dai nuovi padroni, lo ha tradito. Tali tradimenti sono diffusi: “L’atteggiamento giusto, se sei gay e non puoi fuggire, è quello di non fidarsi di nessuno, né di tua madre, né del tuo migliore amico. L’unica differenza tra le varie fazioni è che, quando vieni scoperto e catturato, alcune ti torturano prima di ucciderti” dice Elmo.
Tra le testimonianze raccolte da Proud, gruppo fondato dal gay libanese Bertho Makso, compaiono decapitazioni e il caso di una donna transgender di un sobborgo di Damasco morta dopo essere stata appesa per i seni. Un analogo database compilato da Human Rights Watch alla fine dello scorso anno parla di una coppia gay identificata come tale e catturata dal governo siriano che aveva intercettato i loro messaggi. I due uomini sono stati picchiati e insultati (i loro aguzzini li chiamavano “ziette”) e per dieci notti sono stati costretti a spogliarsi e avere rapporti sessuali di fronte ai soldati, che usavano del gesso per truccare le loro facce.
Un altro uomo, che lavorava nel settore della moda, venne rapito da uomini armati non identificati nell’area di Damasco controllata dall’esercito siriano. Anch’egli veniva chiamato “zietta”, costretto a spogliarsi e stuprato. Anche Human Rights Watch afferma che l’ordalia di cui sono vittima gli omosessuali non sempre si ferma al confine libanese. L’ONG newyorchese ha documentato dei casi di omosessuali sottoposti a tremendi e dolorosissimi esami anali da parte delle forze di sicurezza interna libanese, nonostante l’appello fatto nel 2012 da medici e dal ministro della giustizia per abolire tale pratica, equivalente alla tortura.
La strada che si snoda tra i monti Qalamun in Siria passa per ‘Arsal. Questa cittadina nella valle della Bekaa, il cui nome significa “Trono di Dio” in aramaico, è diventata uno dei luoghi più scottanti della regione. Non è la prima volta che viaggio lungo questo fronte confuso. I ritratti dell’iman iraniano Ali Khamenei e dei combattenti di Hezbollah caduti punteggiano i muri delle case.
Le aree sunnite sono diventate di fatto un porto sicuro per i ribelli siriani; le aree sciite a nord della valle della Bekaa, invece, osservano con trepidazione l’ascesa dei gruppi salafiti. Per i rifugiati che ce l’hanno fatta a raggiungere il fragile santuario della Bekaa, impenetrabile per chi viene da fuori, l’esilio è ancora lontano dall’essere una liberazione. “La strada che porta al confine è conosciuta come il Corridoio della Morte” dice Sally, un omosessuale che ora si identifica come donna, che ho incontrato a Beirut: “Ci sono forse cinquanta o sessanta posti di blocco. I soldati sono annoiati e isolati. Cercano di identificare chi potrebbe essere gay. Di notte, ci tengono dietro” continua fremendo e stornando lo sguardo. Sally viveva in Dier ez-Zor, la città più grande della Siria orientale, quando l’Isis ha fatto il suo ingresso nel distretto: “Mi hanno riferito che hanno giustiziato gente per ‘crimini’ come il sesso al di fuori del matrimonio e l’omosessualità. La Hisbah, la loro polizia religiosa, ci dava la caccia casa per casa. Le famiglie contro le famiglie. Sapevo che era solo questione di tempo prima che uno dei miei parenti mi denunciasse: sono un uomo femmineo e sapevo che sarei stata individuata”.
Sally mi fornisce i dettagli del suo viaggio, durante il quale i soldati siriani l’hanno abusata sessualmente più volte. In cambio del “favore”, la autorizzavano a passare ai posti di blocco. Alla fine, raggiunse il confine libanese. Un viaggio che normalmente sarebbe durato sette ore durò invece quasi una settimana.
Chi fugge come Sally ha sempre meno posti dove andare. Il Libano sta chiudendo le frontiere e sorvegliando i suoi confini: attualmente i valichi ufficiali sono solo due, Masnaa nella valle della Bekaa e Arida nel nord. Il confine tra Libano e Siria corre per 370 chilometri attraverso territori desolati che non possono essere umanamente monitorati: si vedono spesso elicotteri dotati di telecamere a infrarossi. Ma chi è determinato ad attraversarlo riesce a farlo comunque, fino ad approdare ai sobborghi di Beirut.
L’Isis non è la prima organizzazione ad utilizzare la barbarie contro le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender come arma di guerra e non sarà l’ultima, ma il suo livello di violenza e malvagità è senza precedenti.
Senza qualche tipo di intervento questa guerra civile indurrà sempre i gay e le lesbiche della Siria al pericoloso viaggio attraverso il fiume Kabir – nel passo di Homs tra Siria e Libano – o le propaggini del monte Libano, senza nessuna garanzia di un rifugio sicuro dall’altra parte.
I veri nomi di Halim, Sami, Elmo e Sally sono stati modificati. Per ulteriori informazioni sul progetto Where Love is Illegal visitate il sito whereloveisillegal.com
Testo originale: “The only difference between the factions is some will torture you before they kill you”