Io omosessuale cristiano e l’amore
Lettera e risposta tratta da Famiglia Cristiana n.7 del 18-2-2001
Alberto scopre di essere omosessuale. Cerca e trova chi può condividere con lui una vita ideale, in intimità di spirito. Ma si scontra con la società e la sua famiglia.
Caro padre, potrei esordire scrivendo: «Sono un omosessuale, mi aiuti!». Invece, non lo faccio perché credo sia sbagliato esaurire il ritratto di una persona con un’unica parola che, semmai correttamente intesa, può indicare a grandi linee solo una componente della personalità di un individuo.
Inoltre, mi sembra che ultimamente la parola «omosessuale» venga usata, con un atteggiamento di comodo, da chi ha interesse a liquidare sommariamente e in malafede un fenomeno che si vuole condannare senza prima conoscerlo. O del quale si vuole, viceversa, esaltare aspetti deteriori in nome di una presunta libertà sessuale.
Se le scrivo è perché vorrei pregarla di usare le sue parole, sempre così chiare e mai «di parte», per dare voce alla sofferenza di chi, come me, non grida rivendicazioni alla Gay pride, non rivendica il diritto di usare il proprio corpo per trarne piacere ora con Caio ora con Sempronio, ma è schiacciato da una società (e, quel che è più doloroso, da una famiglia) che, per ignoranza o per bigotto atteggiamento pseudo-religioso, generalizza e condanna. Perché è facile generalizzare. Ed è facile condannare: non si perde tempo e ci si sente, senza fatica, dalla parte della ragione e del giusto.
Un giorno, una decina d’anni fa (ora ne ho trenta), ho raccontato ai miei genitori non di essere omosessuale, ma di essermi accorto di «amare» gli uomini anziché le donne. Ho detto di «amare» gli uomini nel senso più casto del termine.
Ho raccontato che la mia adolescenza era stata un inferno, ma che da solo – o, meglio, con il solo aiuto di Dio – ero riuscito, anche se dolorosamente, a trovare una mia serenità e un mio equilibrio. Ho raccontato che sognavo di incontrare un giorno una persona che, come me, avesse avuto voglia di condividere una vita di ideali, affetti, senza intimità sessuale, ma in intimità di spirito.
Risultato: dramma, paure, mancanza di fiducia, controllo su ogni mio passo, visita dallo psichiatra, santini nella federa del cuscino… Poi non se ne è parlato più.
Ora mi è successo di conoscere quella persona che ho sognato tante volte di incontrare, che mi vuole bene, a cui io voglio bene, e col quale si è costruito un rapporto di stima, affetto e amore tali da non sentire nella nostra scelta di castità alcun limite.
La reazione in famiglia? Un nuovo terribile disastro. Forse la colpa è mia: avrei dovuto, in questi anni, aprirmi di più con i miei genitori, consentire loro di conoscermi a tal punto da non avere paura di me e della mia scelta.
So solo che a trent’anni, con una piena indipendenza economica, con una vita professionale gratificante, sono controllato, pressato… E questo mi fa nascere sensi di colpa molto dolorosi. Tanto dolorosi da non sentirmi mai libero e sicuro di me nel vivere la mia vita. Eppure la mia coscienza davanti a Dio, alla società e alla mia stessa famiglia è pulita.
Mi piacerebbe che almeno i miei genitori riuscissero a vivere anche loro della mia potenziale felicità e serenità. Lo so che la società è piena di pregiudizi. E so bene che è anche questo che impedisce ai miei cari di essere sereni.
Come dire, per loro sarebbe più semplice sapermi bello e sposato con una brava ragazza, piuttosto che a rischio di mille pettegolezzi. Lo so, so che è così. Ma mi torturo nel sapere che la mia felicità è qui, dentro di me e che basterebbe solo un po’ di fiducia da parte almeno dei miei cari, per poterla vivere e darne anche agli altri.
E la tortura è grande perché so che i miei cari mi amano.
La risposta….
Il male di Alberto non è l’omosessualità, ma la mancanza di fiducia in sé stesso. È lui che deve dire a sé stesso cosa deve fare. È vero che nessuno è autosufficiente, ed è segno di saggezza ascoltare le persone che possono aiutarci a scegliere tra il bene e il male. Come pure è doveroso tener conto anche delle ripercussioni che le nostre scelte hanno nella vita delle persone con le quali viviamo.
Ma gli altri devono aiutarci e non impedirci di vivere, anche se lo fanno in buona fede. Alla fine è la nostra coscienza «formata» che detta quello che dobbiamo fare e quello che dobbiamo evitare. Purtroppo siamo stati educati a lasciarci guidare dall’esterno piuttosto che ascoltare la voce della coscienza. Con la conseguenza che siamo dominati più dai sensi di colpa che guidati dalla coscienza dove risuona la voce di Dio.
Alberto deve ascoltare ciò che Dio gli dice: che lui è fatto a sua immagine; che per lui egli ha dato la vita; che vuole la sua salvezza e lo segue in ogni passo della sua giornata. Gli dice ancora che lui non può pensare di realizzarsi da solo, ma deve mettersi in relazione con gli altri. L’esigenza di creare un rapporto affettivo non è un optional e tanto meno un capriccio, ma un’esigenza scritta da Dio nella natura.
Anche in filosofia si dice che l’uomo è un essere sociale: si intende dire non solo che ha bisogno di inserirsi nella grande società, ma che ha bisogno anche di rapporti affettivi personalizzati.
L’uomo non vive di solo pane, ma soprattutto di amore. L’evangelista san Giovanni è esplicito: «Chi non ama è nella morte». Come è presuntuoso chi ritiene di poter fare a meno degli altri, così è ancor più presuntuoso chi pensa di poter fare a meno dell’amore. Vale per tutti: per gli eterosessuali, per gli omosessuali, per chi si sposa e per chi si consacra a Dio.
Il problema per Alberto nasce in un secondo tempo, quando il suo naturale e legittimo bisogno di amare e di essere amato passa per una inclinazione che non è stato lui a darsi, ma che orienta questo naturale bisogno di amore nella direzione di una persona dello stesso sesso. Allora incomincia il tormento. Sente il bisogno di uscire dalla solitudine, ma incontra subito degli ostacoli che non sa come superare.
La reazione della sua famiglia è significativa: dramma, paura, mancanza di fiducia, controllo, visita dallo psichiatra, santini nella federa del cuscino… Ora che il sogno può diventare realtà viene messo nelle condizioni di dover scegliere tra la famiglia e la sua felicità. Una scelta che non vorrebbe fare, ma a cui è concretamente obbligato.
A questo punto deve entrare in gioco la sua coscienza. Non può chiedere aiuto ai familiari o alla gente, perché sa in partenza che, nonostante tutte le belle parole di comprensione, verrà giudicato negativamente.
E, in una certa misura, discriminato, nonostante la sua coscienza non gli rimproveri la scelta che ha in animo di fare. Deve provare allora a verificare la sua coscienza e se è vero che vuole un rapporto di ideali di vita, di sola intimità spirituale.
Nessuno può condannare un’amicizia che nasce tra due uomini che intendono aiutarsi nel cammino della vita («Un amico fedele», dice il libro del Siracide 6,14-16, «è un balsamo di vita. Lo troveranno quanti temono il Signore; un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova, trova un tesoro»).
Però Alberto cerca qualcosa di più di un’amicizia. Desidera creare una relazione che soddisfi quella radicale esigenza naturale che viene indicata con l’espressione "uscire dalla solitudine", cioè un rapporto di amicizia particolare che coinvolge e prende castamente tutta la vita. Per sempre.
Questo tipo di relazione crea due serie di interrogativi. Il primo nasce dal fatto che è un rapporto disapprovato dalla gente e dagli stessi familiari, per cui se Alberto vorrà realizzarlo dovrà rafforzarsi per sostenere le eventuali critiche. Il secondo nasce dalla natura stessa di questa relazione.
E su ciò deve ben riflettere. Infatti, questa particolare relazione viene realizzata normalmente tra due persone di sesso diverso, perché la diversità tra uomo e donna non solo appaga il bisogno di affetto, ma dà origine a una storia in cui l’uomo e la donna trovano le risorse che aiutano la loro relazione a durare e ad arricchirsi nel tempo.
Anzitutto, perché è una relazione tra due mondi umani complementari, il che significa che ognuno dei due oltre alla diversità che nasce dalla storia personale, porta nel rapporto quella diversità che nasce dalla maschilità e dalla femminilità, due mondi di umanità che nascondono grandi ricchezze di vita che Dio stesso giudica "molto buone".
Queste diversità-ricchezze non si limitano ad arricchire la coppia, ma la aprono alla procreazione, che ha l’effetto di dare vita a un nuovo essere umano, ma anche di rigenerare l’uomo e la donna. Infatti, il figlio non si aggiunge alla coppia, ma interagisce con essa: fa passare l’uomo e la donna dalla condizione di coniugi a quella di genitori e con loro inizia una storia che si prolunga per tutta la vita.
In altre parole: la relazione eterosessuale è una storia che si svolge attraverso molti capitoli, ognuno dei quali porta una novità di vita. Nella relazione omosessuale non esistono queste varianti. C’è la ricchezza che nasce dalla comunione di due vite che mettono in comune affetti e ideali.
Manca la ricchezza che è data dalla maschilità e femminilità, e la ricchezza che nasce dalla procreazione. È quindi un rapporto che non ha tutte quelle risorse di vita che ha invece un rapporto eterosessuale.
Gli ostacoli che la famiglia di Alberto pone alla sua scelta nascono certamente dalla preoccupazione del giudizio della gente. Ma nascono, forse, ancor più dalla percezione che il rapporto omosessuale casto è molto più difficile da vivere per i limiti che porta in sé stesso.
Non ha l’approvazione e il sostegno della gente; non ha quegli sviluppi che nascono dalla eterosessualità; non ha soprattutto quella novità di vita che è il figlio: novità che rinnova e rilancia tutto il rapporto.
Per questo le persone omosessuali che intendono creare un rapporto di vita devono essere consapevoli dei pregi e dei limiti di questo rapporto. Non si può chiedere loro di rinunciare al bisogno di "uscire dalla solitudine" e di creare una comunione di vita, ma devono essere consapevoli di quello a cui si impegnano. Ed educarsi a viverlo in modo costruttivo per sé e per la comunità.
Alberto non fa nulla di male se intende creare una casta amicizia omosessuale, perché l’inclinazione omosessuale non può sospendere e impedire il bisogno naturale di "uscire dalla solitudine". Spetta a lui decidere se rinunciarvi per amore dei suoi familiari o iniziarla e continuarla per la sua felicità.
Nel secondo caso Alberto dovrà rafforzarsi, non solo per fronteggiare la diffidenza della gente, ma per viverla come un’amicizia che porta in sé dei pregi, ma anche dei forti limiti.