Sono un marito, padre e gay nascosto. 50 anni di vita in 50 righe
Email inviataci da Lorenzo*
Ho doppiato da poco i 60 anni, sono sposato (e pure recidivo perché in realtà sono risposato dopo aver divorziato), ho un figlio di 22 anni e sono omosessuale.
Castrato, beninteso, e ben due volte: la prima dai miei genitori quando ho cominciato a dare i primi segni del mio essere e la seconda da me stesso: 24 anni fa ho preso un impegno e lo rispetto, anche se a volte la cosa mi costa non poco.
Non sono neppure così cristiano come dovrei, o forse non sono cristiano e basta – ma ne parleremo più oltre – anche se sono profondamente religioso.
Insomma, sono un caos: omosessuale, ma castrato, cristiano, ma anche no, e comunque la mia fede in Dio non è mai stata messa in discussione. Cercherò di fare ordine, vi prego di scusarmi se ne uscirà un feuilleton a fosche tinte e soprattutto lungo.
Partiamo dall’inizio: sono cresciuto insieme a mia cugina, di un anno più giovane di me; abbiamo trascorso l’infanzia insieme, giocato insieme, condiviso molti aspetti della nostra vita, tanto che ho sempre preferito passare il tempo libero con lei – ed i giochi erano quelli che un tempo si definivano “da femmina”, giocavamo con le bambole, giocavamo alle signore che prendevano il tè, … – piuttosto che partecipare alle partite di calcio cui giocavano i miei coetanei o mescolarmi agli altri “maschietti”: mi sentivo molto più a mio agio così.
Tra la quarta elementare e la prima media mi sono “innamorato” tre volte di altrettanti miei compagni di scuola, sentivo di essere diverso dai mei coetanei (tanto che sono arrivato a pregare tutte le sere di potermi risvegliare bambina … beata innocenza!) ma non ne soffrivo più di tanto, visto che ho da quasi subito imparato a mimetizzarmi: la mia famiglia – e mio padre in primis che dall’omosessualità sembrava ossessionato – non mi avrebbe mai accettato, avesse saputo.
Nascondersi era la soluzione più pratica, salvo dar sfogo al mio essere quando nessuno mi vedeva (mi è tornata da poco in mente la volta in cui, a 10 anni, ho rubato una piccola bambola a mia cugina e me la sono portata a casa di nascosto per giocarci quando ero solo e per addormentarmici abbracciato).
Poi siamo cresciuti, mia cugina ed io, ed abbiamo preso strade diverse pur rimanendo ancor oggi molto uniti: amici diversi, passatempi diversi, … insomma, vite diverse.
A 15 anni ho avuto le prime esperienze sentimentali e fisiche (per quel che di fisico potevano fare ragazzini quindicenni di buona famiglia nei primi anni 70, ovviamente) e tutte con ragazzi.
A casa sembravano quasi ossessionati perché mi trovassi una ragazza, da un certo momento in poi, ho pure cominciato a manifestare, durante i pasti, interesse verso questa o quella compagna di scuola, così da riuscire a nascondere il mio vero sentire.
La prima ragazza l’ho incontrata che avevo 18 anni, dopo essere stato insieme a tre ragazzi; poi a 19 ho incontrato A., il primo amore della mia vita. È stata una relazione bellissima ed intensa, fisica ed affettiva: ne ero innamorato e pensavo che forse avrei potuto finalmente essere me stesso. Pensavo male, perché lui in realtà non ha mai contraccambiato il mio sentimento, limitandosi a divertirsi un po’ (parole sue) quando si passava al piano fisico e nel giro di un anno è scomparso dalla mia vita in maniera totalmente inattesa e con mio gran dolore.
Ho conosciuto a 22 anni una ragazza della quale ho creduto di essere innamorato, tanto che dopo due anni ci siamo sposati. Le ho raccontato tutto di me, del mio sentirmi diverso, delle mie esperienze, dei miei amori e del mio dolore conseguente la fine della relazione con A.
Credevo che vivendo insieme, volendo costruire qualcosa insieme, la sincerità totale fosse cosa non solo dovuta ma anche buona e giusta. Lei, del suo, non mi ha mai raccontato dei suoi problemi con l’alcool, dei quali avevo finalmente preso atto; sono stati 10 anni durissimi, trascorsi tra il raccattarla ubriaca da qualche bettola, l’averne cura quando stava male a causa dei suoi eccessi e subire – da un certo momento in poi, per fortuna verso la fine del matrimonio – la sua rabbia e la sua sfiducia per essere (come mi definiva lei) una “mezza checca” …
“Mezza” era la parte più offensiva, a significare che non ero nemmeno capace di essere omosessuale del tutto. E sentirmi assurdamente in colpa, come se fossi io la causa dei suoi problemi etilici, che invece aveva già da anni, quando ci siamo conosciuti.
Ad un certo punto non ce l’ho più fatta, ho smesso di starle dietro e finalmente un (bel) giorno se n’è andata di casa.
Dopo un anno di completa solitudine, durante il quale ho cercato di rimettere insieme i pezzi di me stesso (ed ho pure speso una piccola fortuna in sedute di psicoterapia, sedute purtroppo quasi del tutto inutili), ho per caso reincontrato A., che non vedevo da un bel po’, ed abbiamo ripreso la nostra relazione per qualche mese; con le stesse regole della volta prima, beninteso; ci soffrivo perché sapevo che stava finendo male e che non c’era futuro per me con lui, ma ne ero anche profondamente innamorato e cercavo di guardare solo al lato positivo.
Ovviamente non c’è stato futuro con lui ma nondimeno la mia vita è cambiata quando ho accettato un’offerta di lavoro in un’altra regione. Immaginavo di potermi creare una nuova vita, più consona al mio sentire, lontano dalla città in cui ero cresciuto ed in effetti così è stato, solo che non ho incontrato il compagno della mia vita ma la compagna. Ci siamo sposati, è nato nostro figlio ed io mi sono finalmente sentito realizzato; ovviamente non ho fatto i conti con il mio vero essere, che dopo qualche anno è tornato prepotentemente alla ribalta.
Lei non sa nulla, di alcune parti della mia vita, non sa che sono omosessuale ed io non dò spazio a quella parte della mia personalità, la soffoco, la vivo di quando in quando tra me e me, nella fantasia, diciamo, perché comunque con lei ho preso un impegno che intendo onorare; non voglio farla star male, le voglio troppo bene per ingannarla (perché non sento di averla ingannata non avendole detto di me: all’atto pratico, non cambia nulla, le sono fedele e ci prendiamo reciprocamente cura di noi stessi).
Mi sono “castrato”, come dicevo più sopra, ed ho adeguato la mia vita alla situazione che io stesso a suo tempo ho scelto. Perché vi scrivo, dunque? Credo di aver bisogno di essere me stesso, trasparente e chiaro; di parlare e di aprirmi non solo con qualcuno che non mi giudica ma anche con qualcuno cui il mio aprirmi, il mio raccontare di me non provoca dolore. Preferirei sinceramente morire piuttosto che farle del male.
E perché scrivo ad un’organizzazione cattolica, io che non mi sento nemmeno di definirmi cristiano? Credo che in primo luogo c’entri il breve contatto che a suo tempo ho avuto con la “Davide e Gionata” (uno dei primi gruppi di cristiani omosessuali nato in Italia a Torino, oggi scomparso): vi sono stato solo due volte ma mi hanno fatto finalmente sentire “a casa”, capito, accettato, non più diverso ma uguale a tutti gli altri e ne ho serbato un buon ricordo.
In secondo luogo, non condivido per nulla le istanze neoliberite e neocalviniste che impregnano la cosiddetta “teoria queer” importata da USA/UK e che è diventata uno dei caposaldi dei movimenti gay “laici” (ma questo è un altro discorso, più lungo e complesso, che non mi sento di affrontare in una mail da “primo contatto” e che non voglio nemmeno far subire – non così da subito, almeno – a chi mi leggerà).
La cosa curiosa è che non mi sento nemmeno di dirmi cristiano, non condivido molte parti della predicazione di Gesù, che ritengo più un estremista zelota che altro (e scusatemi per la bestemmia). Credo in Dio, profondamente, e sono molto religioso, anche se di un sincretismo tra la mistica ebraica e parte di quella cristiana.
Scusatemi per la prolissità ed insieme per l’aver concentrato 50 anni di vita in 50 righe.
*Ringraziamo Lorenzo per averci autorizzato a pubblicare la sua toccante testimonianza.