«Sono favorevole alle unioni gay. Ma i miei figli non capiscono»
Intervista a Francesca Rigotti, a cura di Daniela Monti, pubblicata su Il Corriere della Sera del 7 gennaio 2013
L’impressione, discutendo di famiglie omogenitoriali e diritto delle coppie gay e lesbiche ad avere figli, è di essere, prima ancora di partire, in controtempo e superati dalla storia: nella realtà, queste famiglie ci sono già e sono molte, i loro bambini crescono negli asili, nelle scuole, nelle comunità accanto, ed uguali, a tutti gli altri. Francesca Rigotti, filosofa e saggista, parte dai bambini: i suoi.
Quattro giovani adulti che, interrogati quando ancora erano adolescenti sullo scandalo (se oggi si può ancora chiamare così) di avere due papà o due mamme, restituivano lo stesso disagio sintetizzato da una piccola fan di Barack Obama nella lettera inviata, un paio di mesi fa, al suo presidente: a scuola mi prendono in giro perché ho due papà, che posso fare?
«Mi colpirono molto le osservazioni dei miei figli, che mai avrebbero voluto trovarsi in quella stessa situazione, con quel tipo di famiglia, per paura di essere esclusi dal gruppo, canzonati, per il terrore del ridicolo, della diversità. Mi colpì perché penso che, prima di ogni cosa, i bambini debbano essere tutelati e protetti». Poi a quelle riflessioni ne sono seguite altre. Oggi Rigotti torna ad affrontare il tema delle coppie e delle famiglie omosessuali forte di molte certezze, anche se restano nodi da sciogliere, grumi teorici da appianare.
«Ho superato le titubanze iniziali dicendomi che da qualche parte bisogna pur iniziare, che le coppie più coraggiose devono aprire la strada anche per le altre che verranno. Se ci si adegua sempre, non vedremo mai reali progressi nel nostro vivere comune. Quando insegnavo all’università di Göttingen, in Germania, nei primi anni mi capitò di subire aggressioni verbali.
Per strada parlavo in italiano ai miei bambini e, immancabilmente, qualcuno mi richiamava: signora, siamo in Germania, qui si parla tedesco. A quel tempo i miei figli avrebbero voluto essere come tutti i loro compagni, senza complicazioni legate alle origini. Ora sono ben felici di essere bilingui. Allo stesso modo fra vent’anni nessuno si stupirà più di famiglie che oggi ci appaiono così “diverse”».
Se il bioetico Adriano Pessina, intervenendo nei giorni scorsi nel dibattito aperto sul Corriere, aveva insistito a lungo sul termine «differenza» — «Non è indifferente che una coppia sia formata da un uomo e una donna oppure da due uomini o due donne, maschile e femminile sono necessari per la definizione stessa della condizione umana» — Rigotti ribalta la prospettiva. «La mia parola d’ordine è eguaglianza.
È la parola/concetto che sta alla base della visione del mondo in cui parità e equità contano più di diversità e differenza. Certo che il motto “tutti gli uomini sono uguali” è, letteralmente preso, privo di senso. Certo che siamo tutti diversi, ma anche, in quanto persone, tutti uguali in dignità e diritti. Diritti non su cose e/o persone, bensì diritti a idee e ideali come la libertà, la vita e, ancora, l’eguaglianza». Ma c’è una diversità naturale fra i due generi, quella che i filosofi chiamano essenzialismo.
«Il linguaggio della differenza (magari ontologica, per natura dunque, così da essere inchiodata inesorabilmente sulla pelle di ognuno) e le differenze di sesso o di preferenze sessuali le vedo sempre in agguato a ribadire il ruolo pertinente a ciascuno: alla donna l’accoglienza, la cura, l’accudimento e l’affettività, all’uomo l’uscita all’esterno, la vita pubblica, l’azione». È il problema dei ruoli.
Per Rigotti riconoscere la differenza porta a cristallizzare uomini e donne ciascuno dentro il proprio «destino», facendone una gabbia da cui è difficile evadere. È così? «È proprio l’assegnazione dei ruoli — riprende la filosofa — a motivare le posizioni di alcuni avversari della libertà per le coppie omosessuali di formare famiglie e avere bambini: chi svolgerà il ruolo femminile, chi quello maschile?
A chi toccherà rendere il nido caldo e accogliente, a chi invece accompagnare l’uccellino al pontile per insegnargli a volare, se non, rispettivamente, alla madre/femmina e all’uomo/maschio? Non prendo queste immagini a caso, le abbiamo introdotte, Duccio Demetrio e io, nel nostro recente libro Senza figli. Una condizione umana, ma non pensando che si tratti di ruoli connotati naturalmente e ontologicamente, quanto di ruoli storicamente e socialmente creatisi e che come tali possono anche essere mutati».
In quello stesso libro, però, affrontate anche un altro tema: l’ossessione del figlio. Un assillo trasversale, che sembra coinvolgerci tutti, omosessuali e no. Avere figli è un diritto? «Il figlio a tutti i costi, spesso da esibire come trofeo, è un’ossessione da respingere, perché espressione di una società malata. Fa parte del narcisismo per cui vanno soddisfatti tutti i nostri desideri, tutti i nostri piaceri.
Ma il diritto non è quello ad avere tutto. C’è stata l’epoca dei diritti politici e civili, poi quella dei diritti sociali. Ora la nuova generazione è alle prese con i diritti virtuali, condensati attorno all’uso della rete. Forse la prossima sarà la generazione che chiederà il diritto alla soddisfazione di ciascuna esigenza per raggiungere la realizzazione e pienezza umana».
La diversità naturale fra i generi, che le crea disagio in quanto, sostiene, presenta un lato pericoloso per la parità, viene continuamente erosa. Le giovani coppie sono distanti anni luce da quelle dei loro nonni anche su un terreno che le è particolarmente caro: la vita domestica e l’accudimento dei figli. Lei sostiene che il pensiero nasce ed è formato dalle pratiche che le persone esercitano. La maternità — non biologica, ma metaforica — può essere un’esperienza anche maschile? E in questo caso: è una fertile condivisione o una espropriazione? «Insistere sulle differenze fra i generi, come fa anche un certo femminismo, soprattutto italiano, può portare a conseguenze gravi e spesso a scapito delle donne stesse.
Meglio dunque correre il rischio di venire espropriate di un ruolo tradizionalmente legato alla femminilità che non rischiare di rimanerne invischiate (e limitate) per l’intera vita. C’è una tendenza generale, da parte maschile, all’espropriazione, cioè all’appropriarsi di ogni incombenza e di ogni capacità delle donne.
Se questo si riduce ad una mera esibizione, tipo i tanti divi che si presentano in pubblico con i figli appesi al collo, è ovviamente da condannare; è invece condivisione fertile, fertilissima, se fatta in maniera sentita e partecipe, da parte del padre, non soltanto nei pochi giorni di congedo parentale, ma in tutto il percorso della crescita dei bambini, che tra l’altro sarebbe enormemente favorito dalla possibilità di svolgere il tempo parziale al lavoro, tutti, madri e padri, omo e etero che siano».