Una pastora e il suo cammino con un gruppo di credenti omosessuali
Riflessioni della Pastora Valdese Letizia Tomassone tratte dal Bollettino Refo, Anno 4, numero 14, Settembre-Ottobre 2001, p.6
Un gruppo di credenti omosessuali, per la maggior parte cattolici, chiede di essere ospitato dalla Comunità Valdese di Verona e l'aiuto della pastora della comunità. Nasce così un cammino in cui, come ricorda la pastora Tomassone, "c’è un grande bisogno di lasciarsi libertà: loro a me e io a loro. Questo credo che permetta al gruppo (di credenti omosessuali) di crescere anche come gruppo che nella città può portare alle altre chiese e alla chiesa cattolica dei contributi notevoli". Questo è il racconto della sua esperienza.
Il motivo principale della mia presenza al convegno* è che in questi anni sto seguendo dei gruppi di omosessuali credenti. Per quanto mi riguarda è una scelta strana perché condivido le perplessità di quelli che pensano che i credenti non abbiano una caratteristica che nasce dalla loro identità sessuale, di genere o di altro tipo, ma che i percorsi si fanno insieme come comunità.L’altro aspetto un po’ paradossale è che i gruppi di credenti omosessuali sono al novanta per cento maschili.
Il mio percorso personale parte da un’educazione eterosessuale in cui la sessualità era connotata come qualcosa da tenere nascosta. L’impatto con il movimento delle donne e femminista mi ha permesso di aprire gli occhi sulla possibilità di avere relazioni di altro tipo all’interno dello stesso genere.
Non parlo soltanto ed in primo luogo di relazioni sessuali, ma di capacità di guardare la persona del tuo stesso genere con uno sguardo di stima, di amore, con lo sguardo che ti permette di scoprire nell’altra donna, qualcosa di importante, di ricco per te.
Questa scoperta è stata quella che ha trasformato, che ha dato calore alla mia vita, cioè la possibilità di spostare lo sguardo da una concentrazione legata alle relazioni eterosessuali e quindi anche alla seduzione dell’altro, dipendente dal bisogno che un uomo mi riconoscesse, alla capacità di stare in relazioni di altro tipo, molto più reciproche, molto più aperte e in cui potevo essere molto più scoperta; non dovevo mostrare solo un aspetto di me, ma potevo essere me stessa. Questo percorso, questa apertura dello sguardo, della mente, del corpo, di tutta la mia esistenza è avvenuta per me nel movimento delle donne.
Ma questo non mi ha portata a vivere delle relazioni separate, ha semplicemente aperto la mia vita all’altra metà del cielo, se così si può dire. Come se un’educazione (eterosessuale o sessista) mi avesse chiuso la possibilità di comunicare con le altre donne. Vivere dentro di me questa difficoltà, mi ha portato a lavorare oggi con le bambine, con le adolescenti su questo aspetto terribile dell'educazione.
Qualche anno fa, per questioni inerenti il mio lavoro, per la vocazione che la chiesa mi ha rivolto, sono andata a lavorare ad Agape, che è un centro ecumenico di incontri. Ad Agape, ormai da più di venti anni, c’è un campo su fede e omosessualità promosso da gruppi di omosessuali credenti in maggioranza cattolici e in maggioranza uomini. Si tratta in realtà di un campo di autocoscienza maschile, di confronto fra uomini: in fondo è bello che ci sia questo spazio, anche perché le donne, sempre ad Agape ed anche in molti altri luoghi hanno molte più occasioni di incontrarsi, proprio grazie al movimento delle donne.
Ad Agape ho conosciuto molte persone, ho fatto molte amicizie ed ecco perché quando sono arrivata a Verona mi hanno chiesto di aiutare un gruppo di omosessuali credenti quasi tutto maschile, dove alcune donne vanno e vengono.
In tutto questo percorso ho appreso quanto l’essere omosessuali, da parte soprattutto cattolica, venga visto come una colpa, un problema, un handicap da superare. Condizione che ti piega, che piega proprio il tuo corpo, che ti porta ad avere un sguardo misero su di te. Spesso in questi gruppi arrivano persone che sono sole, rinchiuse nel loro guscio, che hanno una difficoltà enorme ad entrare in relazione con gli altri; la loro condizione omosessuale li ha portati anche ad una incapacità di relazioni umane tout court: né relazioni d’amore, né d’amicizia.
Quindi non è solo un problema che pesa sui corpi ma anche sulle relazioni.
Ad Agape lavorando con lo psicologo Roberto Del Favero, intervenuto nello scorso convegno della Refo, si è insistito sulla trasformazione dello sguardo: un lavoro di guarigione in cui si infonde fiducia nelle persone e si scopre come Dio sia la fonte della vita, un Dio che non è il giudice che condanna, che ti fa piegare il capo.
Dio è quello che alza il tuo sguardo e invita a sollevarti. Per la guarigione questo è solo il primo passo, il secondo è la dignità, la pienezza di sé e quindi anche la spontaneità dello stare in mezzo agli altri, presentandosi senza dover ogni volta affermare se si è questo o quell’altro.
La mia dignità è data non dal fatto che io mi classifichi in una lista o in un’altra lista, ma dal fatto che sono un essere umano, che vivo pienamente la mia sessualità, in un modo o nell’altro non ha importanza, fa parte della mia esistenza. Il passo più importante è quello della dignità e della pienezza dell’umanità.
In questi anni ho notato che il passaggio da un senso di colpa interiorizzato che blocca, a una dignità e a una pienezza e anche a una pacificazione con se stessi, è un qualcosa che è cambiato e ha avuto un’evoluzione nel corso delle generazioni. Dei credenti omosessuali giovani, diciamo dai trent’anni in giù, non hanno più, anche se cattolici, questo problema o lo hanno molto di meno di chi ha ad esempio cinquanta anni.
Non ci si trova più di fronte ad esistenze schiacciate, in cui magari queste persone si sono sempre dovute nascondere, non hanno mai avuto possibilità di confronto e quindi sono veramente molto bloccate. Come se le loro forme di comunicazione fossero tutte bloccate.
In questo lavoro molto importante, ho trovato un grande supporto in alcune parole bibliche, che sono parole di grazia, che fanno scoprire il Dio della grazia e non il Dio del giudizio.
Ad esempio il gruppo che seguo a Verona è molto impegnato in un intenso lavoro biblico, di rilettura dei testi, non di quelli che parlano dell’omosessualità che sono poi due o tre, ma i testi biblici che parlano dell’essere umano, della guarigione, della libertà che ci è data in Gesù Cristo, parole come quelle del profeta Isaia che dice: “Tu sei prezioso per me e io ti amo”.
Parole che esprimono la pienezza umana di fronte a Dio. Testi positivi che mostrano che Dio vuole, cerca l’interezza dell’essere umano. A partire da quelli in cui si parla dell’identità di ognuno, del suo percorso, di come ognuno sta o non sta in questa interezza.
Un problema che vorrei sollevare in questo convegno è quello del ruolo delle comunità che ospitano questi fratelli e sorelle.
Le comunità evangeliche spesso sono pronte a dare accoglienza; ad esempio nella mia chiesa dove da tre anni si ritrova il gruppo è stato affermato: ”la pastora ha il dono di accogliere, sostenere questo gruppo, è una buona cosa che lei lo faccia, noi questo dono non l’abbiamo e quindi lasciamo che faccia lei”.
Hanno elaborato così in questi anni il motivo per cui la comunità evangelica non partecipa a questa attività di accoglienza e di sostegno del gruppo.
La mia preoccupazione pastorale non è nei confronti del gruppo che è molto bello, vivace, autonomo, capace di fare delle cose, di trasmettere calore a quelli che vengono.
Il mio problema è rispetto alla chiesa valdese che offre i suoi locali, ma non partecipa per esempio ai culti pubblici del gruppo omosessuale credente. La chiesa è consapevole che offre legittimazione ad un gruppo che evidentemente la curia cattolica non potrebbe mai accettare in modo pubblico, ma non se ne lascia toccare.
La comunità locale ha tentato di giustificarsi su questo fatto dicendo: “Ma loro non vengono al nostro culto, perché noi dovremmo andare al loro ?”.
Naturalmente questo non è vero, perché molti membri del gruppo vengono di tanto in tanto al culto domenicale. Quindi c’è uno scambio, ma non ci sono persone della chiesa, o molto poche, che vengono ai culti del gruppo, non esiste reciprocità. Come se si concepisse questo momento come una riserva, si offre il tempo della pastora, si da tutta la disponibilità, ma poi più di questo non ci si lascia interrogare.
Si potrebbe dire che un grande passo avanti nella visibilità si è ottenuto dal momento che il gruppo trova spazio nelle nostre relazioni di fine anno. L’anno scorso abbiamo avuto un culto di Pentecoste molto partecipato in cui anche il gruppo ha portato la sua testimonianza e la comunità ha accolto anche questo con gioia.
Ma è come se mancasse la capacità di relazionarsi, come se la comunità avesse paura di questo incontro. Un incontro con un gruppo in cui si lavora sulla Bibbia sulla pienezza dell’identità.
Un altro problema è quello dell’etica. Alcune persone che partecipano al gruppo di lettura biblica, hanno anche il bisogno-desiderio di avere dei colloqui personali e quindi io sono disponibile a fornire questo tipo di sostegno. In realtà queste persone mi chiedono di dar loro dei confini, cercano, come potrebbero cercare da una guida spirituale cattolica, dei criteri, che io dica: questo sì, questo no.
In realtà tutta l’etica protestante è improntata sulla libertà di coscienza e sulla responsabilità che nasce dalla libertà. Tuttavia mi sono resa conto che in un caso in cui c’è confusione nella propria coscienza, non è così semplice. Da parte mia sarebbe come non prendere la mia responsabilità, il rimandare la persona solo alla sua libertà.
Questo non è stato facile a partire dal fatto di essere una pastora protestante. Non l’ho mai fatto con nessuno, neanche agli adolescenti si dice questo sì, questo no, perché il nostro modo di far crescere le persone è un altro. Questa modalità richiede tanto tempo, perché mette al centro la libertà dei figli e delle figlie di Dio.
Mi sono confrontata sul tema dell'autorità con alcune donne del movimento delle donne perché quello è forse il luogo dove più mi trovo a mio agio. Una risposta che mi è stata data è stata proprio sulla consapevolezza della perdita dei limiti, legata alla crisi dell’identità maschile, alla crisi dell’identità patriarcale forte e quindi della necessità che una donna, delle donne, un contesto femminile dessero un contenimento e dei confini al comportamento maschile.
Dunque nella tensione fra la libertà e la necessità di conoscere il limite nella propria vita, sta anche questo ruolo pastorale dentro al quale sono chiamata a essere autorevole.
Mi rendo conto che io lavoro a partire da una posizione di dislocamento: una donna che sostiene un gruppo di uomini sull’identità maschile, una persona che sta in un percorso protestante che sostiene un gruppo di cattolici. Quindi un dislocamento forte su due piani, e in questo caso la cosa più importante è lasciare spazio agli altri.
Offrire tutti gli strumenti che ho, tutte le mie capacità, ma poi loro devono prendere in mano il gruppo, decidere cosa farne, decidere come portarlo avanti ed io posso solo dire: fin qui cammino con voi poi se volete fare qualcosa di più, per esempio, se volete invitare un prete per un’eucarestia cattolica lo fate.
A quel punto mi tiro indietro, per il momento il problema non s’è posto perché nei culti celebriamo la S. Cena in forma riformata, con soddisfazione di tutti.
Ma appunto c’è un grande bisogno di lasciarsi libertà: loro a me e io a loro. Questo credo che permetta al gruppo di crescere anche come gruppo che nella città può portare alle altre chiese e alla chiesa cattolica dei contributi notevoli.
* Intervento pronunciato al III convegno nazionale della REFO “Quale pastorale per le persone omosessuali?”, ottobre 2000